Scritti

Di seguito una selezione di scritti riguardanti l’opera di Piero Raspi.

1955

Francesco Arcangeli

Raspi ha prestato attenzione, probabilmente, ad alcuni tra i fatti più raffinati e precisi dell’arte recente: il miglior Cassinari, Romiti. Ma egli sembra riaprirne i motivi in un rapporto più cordiale con le apparenze del mondo. Elegante con poesia, grandioso talvolta, potrà rischiare una esecuzione un tantino ‘spettacolare’: ma sempre con vero amore per la bella pittura. E con la valvola, se mai, del suo ultimo Paesaggio, delicato, poetico.”

1957

Francesco Arcangeli

E quando Raspi in una sua veduta di neve, sembra sfiorare la allusiva raffinatezza dell’‘astratto-concreto’ di Afro, par subito accennarsi una diversità sostanziale in quel far che forme ambigue risultino stranamente verificate, conquistate con selezione impegnata: nell’ opera nasce una solitudine naturale in cui tutti possono riconoscersi, purché sentano; e non soltanto i sensi di qualche più o meno snobistico eletto. Anche in Raspi, paesaggio, natura morta; un dialogo, anche se abbastanza difficile o segreto: i dintorni di Spoleto possono aspirare ancora alla Provenza, dove nebbie e luci inedite, trattengano però la visione entro un nascosto respiro.”

1958

Maurizio Calvesi

Raspi cerca nell’elaborazione della materia suggestioni tra lo psicologico e il naturalistico, anche se in modi, palesemente, assai distinti l’uno dall’altro. Partisce sullo scriminale della luce e dell’ombra, come a colpi di pettine, le sue spatolate: fila e annoda, con risentita eleganza, spessori essiccati di materia, rastremandoli sottilmente, quasi in un recupero psicologico di prospettiva, e sovrapponendo a spazi naturali, incanalati come su una parallela, spettrale tristezza di binari morti, l’incombenza di sofferte ed inermi minacce.”

Piero Raspi e Bruno Sargentini. Milano, 1960

 

1959

Maurizio Calvesi

“Chi ripercorra lo sviluppo di Raspi negli ultimi quattro anni (uno sviluppo intenso, e chiusamente ardito) s’accorge che è accompagnato da uno scavo irrequieto in sé stesso, da una tenacia e da un dubbio stranamente orchestrati.

La cultura che egli riceve, da un lato, e quel che questa cultura gli attesta, più in generale, sulla condizione dell’ uomo contemporaneo; dall’altro, la costante sentimentale del suo io, e tutta la sua intima personalità: questi due poli di esterno e di inter­no s’incontrano nella sua pittura con una tormentosità che non affiora in forme vistose, e tuttavia v’insinua un accento sotterraneo; secondo una problematiciche egli riesce a far tutta sua propria ed espressiva, anche a rischio di ostinarsi su posizioni apparentemente inconciliabili. Giacché Raspi, e questa è la sua tenacia, ‘crede anzitutto alla pittura’. Ma un dubbio, un rimuginìo, che spira dal rimuginìo stesso della materia, è interno a questa stessa fede, succede subito ad essa; assale il corpo di questa pittura, già pensata per esser ‘naturale’, per essere anche ‘bella’, di una ‘naturalità’ e di una bellezza distensive, e l’ingravida di lieviti spuri.

Il problema di Raspi, mosso da premesse post-cubistiche e astratto-concrete, che la crescita della materia ha trasferito da una posizione mentale a una sempre più muta, ma approfondita, partecipazione nel dato esistenziale-naturale, è stato quello di dialettizzare il visibile con l’immagine afigurale, annullando sempre più il visibile, cioè la sua contingenza di spazio e di tempo, nell’ ècoulement di una essenza sensibile, in valori di flusso e di durata (un flusso lento, una durata che si fa quasi pausa); e ricaricando l’astrazione dell’immagine sulla ‘presenza’ dell’immagine stessa, come su un. suo nuovo incombere, stranamente inerte e minaccioso.

Questo processo, in parte, era già implicito nella presentazione di cui abbiamo più sopra utilizzato una frase – di Arcangeli, riferentesi a dipinti del ’57 e dei primi del ’58: “le sue qualità di pittura-materia restano governate proprio da quella funzione sintetica dell’occhio, che è inevitabile strumento e fine dell’operazione pittorica, del­la sua inevitabile condizione immersa nella contingenza del sensibile anche quando tende all’immagine astratta e universale”. E, per un’altra parte, questo è il senso che mi sembrava di ricavare dai dipinti di Raspi di circa un anno addietro, quando egli agiva come ‘sovrapponendo a spazi naturali, incanalati su una spettrale tristezza di binari morti, l’incombenza di sofferte ed in­terne minacce’; c’era già infatti questo sedimentare sul dato naturale-sensibile di un’inerzia grave, come di tempo fermato e putrefatto (ricordiamo anche i titoli di quella collettiva: Stagno, Giorno nascosto), e questo allinearsi, stratificarsi, talvolta, del­l’immagine quasi a ‘binario morto’; qualcosa che nei suoi quadri recentissimi è leggibile in forme modificate ma più patenti.

Credo infatti che l’ultima evoluzione di Raspi vada vista ed intesa, innanzi tutto, secondo il filo di questo preciso collegamento. Sarà, certo, di tener conto di ulteriori acquisizioni di cultura, sia pure non letterali, Burri, Tàpies, o se volete, Kline e Rothko. Ma il senso di morte, che questa espressione di Raspi può avere in comune con Burri, occorre saperlo intendere anche nei dipinti di prima, che non hanno, con Burri, al­cuna comunicazione formale. Nessuna eco, Spento e nero, sono titoli di nuovi quadri e stanno, a quelli sopra citati, in una relazione che è interna ai dipinti stessi; dileguato il riferimento particolare di natura, Stagno può diventare Nessuna eco; Giorno nascosto, può diventare Spento e nero. Venuto meno, sì, quel riferimento, ma non il veicolo sensibile, che ora assume tutto in il rapporto tra visione e contenuto espressivo.

La tavolozza si orienta decisamente su timbri bassi e quasi monocromi, ma l’elaborazione di questi timbri resta sempre, in profondo, squisitamente, attentamente pittorica. Lo spazio abdica a qualsiasi articolazione, ad ogni residuo senso del lontano, per proporre una sua dimensione tutta imminente, una dimensione di spessore, di crescita frontale, schiacciante, che esclude ogni possibile rilancio dell’occhio (c’è un ‘al di là’ dal quadro, che non è però di profondità spaziale, ma piuttosto psichica, da cui emerge, carica, l’immagine). E questo spessore e questa crescita interessano una materia che non è tuttavia puro dato organico, natura ‘in sé’, ma che sottintende invece una natura, un termine insomma con cui entrare in rapporto. Si tratta cioè ancora di una materia-pittura, di una materia tramite.

Qui appunto bisogna intendere come lo sbarramento delle nuove immagini di Raspi non è gesto, non è affatto violenza, cancellatura (ciò che, almeno teoricamente, non ammetterebbe ulteriori elaborazioni), ma è invece quasi l’opposto di una violenza, è un raccoglimento. È un po’, insieme, un coagulo estremo e compatto della visione, vibrante non più di passaggi ma, appunto, di stratificazioni, che riaffiorano nell’unità castigata ma intimamente ricca dell’impianto tonale. È ancora, in qualche modo, immagine ricevuta e penetrata; forse l’assenza di un volto, più che la sua presenza, ma pur sempre un volto cercato, delle cose, e di sé nelle cose. Se il ritmo di questa ricerca è stringente, quasi coatto, se le tappe vengono bruciate, il tempo interno di questa ricerca è invece improntato da un timbro di gravità, che è uno dei più costanti e personali di Raspi, gravità come nativa, agreste quasi, tutta di sentimento e di dolcezza, alle origini; tuttora tale, voglio dire per nulla snaturata, ma come repressa, oggi, entro un’altra gravità più matura, caricata di silenzio, sigillata, direi, da un sospetto di morte.”

Sandra Orienti

“Delle recenti opere di Raspi, prima della novembrina mostra all'”Attico”, a Roma, c’era rimasta in animo una sorta di sospetto per quella materia così bene ingaggiata a far la parte di pittura densa e fervida, ricca di umori e di allusioni, attraente e piacevolissima: duna piacevolezza, anzi, che sembrava fin troppo disinvolta e arrendevole.

Il cammino, dai primi suoi quadri, era così dichiaratamente tracciato, e percorso fino ad un termine che però sembrava mostrarsi irrisolvibile e concluso. Sotto tale aspetto, la flessione del suo “ultimo naturalismo” manteneva, nella lucente accezione, una sorta di vigilante patetismo che attribuiva ai quadri del Raspi una comunicativa anche troppo immediata.

La facoltà di disporre e rapprendere le immagini evocate secondo una articolazione spaziale libera e infinita sembrava trasporre l’impressione da ottica a tattile; secondo modulazioni di mutevole apparenza.

Oggi, queste ultime tele, datate 1959, ci pongono dinanzi a nuovi problemi.

Non è, certo, che l’opera attuale possegga dati assoluti e irrevocabili di frattura al confronto con quella dell’anno passato, essa è però avviata ad un linguaggio di più severa e meditata ricerca; nel quale è pur vero che certe compiacenze timbriche e cromatiche resistono, con accorato vigore, anche sotto una scorza che solo all’apparenza è mortificata, ed è capace, invece, di covare densità di incandescente materia. Materia, che nei quadri più recenti, per una combustione non solo metaforica, si ribella sino a fissarsi in un’aridità secca che patisce il colore.

Per essa, attraverso un procedimento manuale, chissà fino a qual punto intimamente necessario, che avrebbe potuto soltanto ripetere la “trovata” di altri pittori del nostro tempo, se Raspi non ne avesse ben conosciuto e soppesato i limiti fino a concludere l’esperienza in breve tempo per essa, dunque, il colore ritrova una sua asciuttissima parvenza, una più meditata e lenta possibilità di recuperare l’immagine.

Lo spazio acquista, in questi ultimi quadri, un respiro più circoscritto, una misura più controllabile, pure sfuggendo ancora ad ogni categoria, ad ogni dimensione.

Condizione difficile, quella attuale di Raspi, per la quale non possono essere di alcun conforto e nemmeno, forse, di alcun vantaggio la radice dell'”ultimo naturalismo”, il rapporto di cultura con Burri, o con Tàpies, alcun altro moto di attenzione e di interesse, quando il colore rinuncia ad ogni spessore di luce, per attendere a passaggi di un plasticismo materico che tende a fissare la forma in maniera che, evitata l’alea del provvisorio, essa aspiri a quella stabilità che raccoglie e ricompone la ‘durata’ di una pittura.

Le concrezioni brune, lave cotte di sconosciuti crateri, ombreggiandola di fermenti, sollevano la composizione dalla condizione di uno spazio immobile: all’interno del loro volubile perimetro andrà a ricostruirsi in visibile sintesi la pittura di Raspi.

Ma se la sua condizione ci parve, sino ad un anno fa adagiata (o costretta?) nell”‘impasse” di una Pittura largamente oliata e vibratamente succosa, pronta alla spatola abile, e pure sincera, agli improvvisi e commossi lieviti delle tinte, e ci lasciava for­se pigri di attendere nuove prove, l’attuale situazione di Raspi, quale in particola­re i suoi ultimissimi lavori indicano, appare angustiante e spinosa di rischi che meritino e forse tutti – d’essere corsi e patiti. E la qualità della sua materia e la configurazione delle sue forme sembrano, fin da ora, anticiparne le direzioni. Questa volta, i quadri afigurali di Raspi rifuggono an­che dalla convenzione labile, ma suggestiva, del titolo, che vuol condurre, mediante l’indicazione allusiva, alla consapevolezza di una restituzione pittorica del “visibile”. Ora, il tramite sembra cercare altre vie, più essenziali e più scabre, allo stesso tempo. Raspi, forse, non sa quali nomi assegnare alle immagini afferrate in ogni sua tela: sa, però, che è qualche cosa, che è una forma: ma sa, anzi tutto, che è pittura, ed attraverso essa, con voce più umile, consapevole e “vera”, partecipa ad un rapporto che è restituzione.

Una difficile situazione, dunque, questa attuale, che non lascia certo tempo alla pigrizia, ma piuttosto giustificabile adito ad un senso di attesa partecipante.”

Marisa Volpi

”Piero Raspi, presentato da Calvesi alla Galleria dell’ Attico nel novembre 1959, ci ha dato la sensazione di essere andato celermente avanti negli ultimi mesi.

Dall’impianto post-cubista delle prime tele, al tonalismo sempre impaginato in una costruzione d’eco cezanniana, e tuttavia affidato ad una crescita di materia che preparava nuove acquisizioni di linguaggio, fino all’attuale mortificazione della luminosità in nuovi semplificati rapporti plastici, che richiamano apporti culturali selezionati nell’attuale panorama più o meno informel, Piero Raspi rivela una personalità coerente, priva di esuberanze fantastiche o di inquietudini radicali, un tacito sor­vegliato rapporto tra se stesso e le occasioni di pittura. Entro le quali comprenderemo la sottigliezza delle sensazioni, il naturalismo, e ora una chiave, verificata interiormente, di quelle sensazioni, fornita da suggerimenti che distruggono l’ ultima patina di classicismo nel rapporto tra il soggetto e il quadro.

La sua attività è stata seguita e segnalata all’attenzione del pubblico e della critica dall’Arcangeli, insieme a quella degli altri spoletini: De Gregorio, Marignoli, Toscano, e attentamente rilevato il modo del suo ‘naturalismo di partecipazione’, come un accostamento all’autenticità delle proprie ragioni ed eliminazione delle illusioni sui mez­zi espressivi forniti dalla tradizione post-impressionista e post-cubista. Un modo italiano di accostarsi per tempo ai fatti dell’informale (non è un caso che il critico che per primo in Italia ha valutato l’importanza di questo superamento dei peintres de la tradition française, e i loro echi nazionali e internazionali, sia stato proprio Arcangeli).

Anche se il percorso di Raspi è da concentrare negli ultimi anni, Arcangeli nella pre­sentazione dei quadri del 1958, sempre all’ Attico, parlava di un ‘continuum’ materi­co di ascendenza coubertiana, è certo che quell‘acquisito senso di continuità materi­ca, ancora entro una gamma di rifrangenze naturalistiche, ha indotto Raspi a speri­mentare per un periodo, immediatamente precedente il lavoro attuale, la possibilità di toccare più da vicino il contenuto emotivo di quella ‘lentezza’, o ‘Gravità’ con cui viene giustamente definito il carattere della sua pittura da Arcangeli e da Calvesi.

L’esperimento ha avuto inevitabilmente una fase volontaristica, quindi implicata nei termini di un’espressione ancora incerta tra l’assunzione del gesto ‘informale’ e gli effetti suggestivi di una pieghevole bellezza propria della costituzione pittorica della fantasia di Raspi.

I risultati di colate materiche non sottratte ad un certo tonalismo, sembravano postu­mi di una sensibilità compiaciuta, troppo ‘diario’ per la sua natura cauta e formalmente impegnata. Ma la ricerca di Raspi ha individuato gli elementi che appesanti­vano la sua pittura. L’interesse a Burri, a Tàpies, a Canogar, a Kline e a Rothko, ri­chiamati, mi sembra con pertinenza, da Calvesi tra i riferimenti culturali di Raspi, ha sviluppato i sensi multipli di quel]’ accostamento ai suoi leit motiv esistenziali, volta per volta, in una dialettica di linguaggio necessaria ad un pittore meditativo, che non ama l’estro, né la perentorietà.

Le sue scelte individuano sempre più decisamente il nucleo della sua esperienza artistica. Del resto ‘la spettrale tristezza’, ‘il tempo fermato e putrefatto’, ‘il senso di morte’, sono sempre stati la controparte dell’importanza data dall’artista allo stile. Prendendo coscienza pittorica di un mondo sempre meno poeticamente metaforizza­to, Raspi non poteva non incontrare Burri e magari rievocare a suo modo allucinanti ‘combustioni’, certe scansioni di uno spazio, più vicino a Mondrian che a Cézanne. Ma Burri rischia di viziare la tendenziale raffinatezza tonale di Raspi; Canogar, e in genere le suggestioni di materia possono tendere la sua sensibilità fino all’assunzione di significati sovrapposti, troppo concitati per la sua natura. Probabilmente il rap­porto con la pesante strutturazione di Tàpies, o anche dell’ ultimo Burri dei “ferri” ser­ra invece l’ispirazione di Raspi, la costringe a volgersi alle sue strutture (quello spa­zio cubista che serviva di filtro ad un corrivo amore per la natura), ad esigere da se stesso una chiarificazione: poiché tale è la qualità attiva in un ‘pittore di buona ci­viltà italiana’, come esattamente lo definisce Arcangeli. E se Kline è un riferimento rispondente, anch’esso può contribuire a liberarlo di qualche psicologismo. In ogni caso Raspi utilizza i suoi incontri in modo schivo e personale; direi che i sug­gerimenti di un ambiente sono per lui un colloquio fecondo, e la sua personalità non teme da ciò sofisticazioni; piuttosto l’alternativa di un lavoro solitario può lasciare ir­risolti certi suoi interrogativi, che non il confronto costante con linguaggi diversi.”

VIII° Premio Spoleto. Spoleto, 1960

 

1960

Virgilio Guzzi

“Il pittore spoletino Raspi appartiene al gruppo di quei giovani che, partiti con l’idea di divenire un giorno architetti, hanno ripiegato spontaneamente sulla pittura: quan­do si sono accorti che la pittura astratta e moderna aveva tutte le qualità per appagare il loro gusto portato al tecnicismo, alla decorazione ed all’ apprezzamento della materia.

Queste tabulas esposte dall’artista alla galleria l’Attico mostrano per l’appunto una ‘pittura’ ridotta ai termini elementari d’una materia distesa, plastica e colorata a quel limite dove si scambiano il muro e le sue accidentalità (incrostazioni, macchie, se­gni, graffi, eccetera) con una immagine; dove la qualità fisica di un intonaco e le sug­gestioni fortuite che da quella provengono possono essere elevate al grado di umano ed estetico sentimento, assumere il peso ed il valore dell’atto creativo. Indubbiamente il Raspi ha molto gusto; tanto è vero che gli basta un po’ di gesso e di bitume per creare effetti di eleganza e di raffinatezza; una contrapposizione di densità, opacità, porosità e di liquescenza, trasparenza (secondo una tecnica appresa sui modelli di Fautrier) per rendere il suo ‘muro’ vissuto, diciamo pure magico, e infine evocativo d’uno stato d’animo ineffabile, tutto interno e segreto. In un certo senso inconsapevole. Altri parlerà di queste cose col tono che di solito si tiene quando si discorre della poesia di Leopardi: e sarà così bravo da vedere in tale raffinatezza una filosofia del­la vita, una visione che rispecchi l’idea di azione, di tempo, di storia, eccetera: e si divertirà a sottilizzare con le parole silenzio, assenza, a caricare di significati spiri­tuali (tanto profondi da divenire insondabili ) codesti ‘muri scrostati e sbiancati: ve­ri schermi ad un intravisto vacuum spaziale, dove la pillacchera, la colatura, la vela­tura fanno, in profondità, ciò che fanno i gruppi, i rilievi, le spatolature, le striature in primissimo piano, ostentandosi come materia.

Noi constatiamo una informale espressività che davvero (e qui siamo d‘accordo col Calvesi) è molto simile all’impotenza e al mutismo. E siccome è il risultato che contaquella sorte di raffinatezza magico-decorativa, ottenuta con scoperta bravura manualead esso solo ci riferiamo, tralasciando i ricorsi ad una letteratura peraltro assai capziosa, ed ormai stanca.”

Italo Tomassoni

“L’ottava edizione del Premio Spoleto, ci la possibilità di continuare la nostra indagine sulla pittura in Umbria, con un pittore che ha già da tempo varcato i confini della Regione per innestarsi nella più bella e valida esperienza pittorica italiana: Piero Raspi, secondo premio alla mostra in parola. Ci piace parlare soprattutto a proposito di questa sua ultima ‘stagione’ pittorica, proprio per l’importanza tematica ed euristica che essa riveste, avendo superato non solo gli assunti post-cubisti e post-naturalisti del ‘Gruppo di Corrente· ma addirittura gli stessi lidi dell’ astratto-concreto nei quali si era dibattuto sino a ieri. Cosa questa di estrema importanza, crediamo, e soprattutto di emozionante e reale attualità, essendo impossibile o quanto meno inutile continuare per la strada della “Corrente” che da tempo ha esaurito il suo compito storico di rinsanguare le linfe spente e sterili del ‘Nuovo stile’ e dell‘astratto formale.

Le quattro grandi tele esposte all’ VIII Mostra Nazionale di Spoleto sono la prova migliore di questo campo aperto, di questa vivezza poetica che il Raspi ha intuito e de­scritto attraverso le immagini di un mondo incombente le cui piaghe sontuose e tor­bide smorzano il loro sangue triste nella cenere. Quattro quadri il cui assunto poeti­co si estrania di diritto dai monotoni anfiteatri del puro informale da questa scriteriaggine cioè, dove una pletora di epigoni stanchi si trastulla nella creazione di immagini prive del sigillo della rivelazione, e di soluzioni troppo spesso affrettate. Raspi, la cui natura pittorica lo tiene distaccato profondamente da ogni approdo semplici­stico, vive con trasalita raffinatezza il suo modo: e scarnifica i suoi cieli di pietra do­ve la spenta colata opprimente traccia un sentiero sbarrato la cui morta gora scopre una solitudine visionaria e lirica ad un tempo.

a dire che il nostro si lasci condurre la mano dal letterario, dal lavoro di lucerna; anzi l’urgenza esterna lambisce con violenza il centro sensibile fino a creare, alla lunga, una quasi assuefazione alla partecipazione emozionale; ed è proprio questa ade­renza al ritmo naturistico che crea il fattore condizionante il continuo rinnovamento di quanto di esistenziale è contenuto nella sua pittura di cadenze emotive, pittura di quell’ inquietudine morale nella quale si dibatte la nostra epoca, pittura romantica fino al decadentismo fino a Corbière e a Laforgue, tesa fra il popolaresco e il raffina­to, tra il puro e il torbido, tra gli ingorghi terrestri e le rarefazioni del ciclo.

Pittore pieno d’avvenire Piero Raspi, in tutto l’arco della sua evoluzione intellettuale, sempre così accorto alle più intense significazioni delle cose è così calibrato nel tradurre il suo mondo.”

Nella Kaufmann House di F. L. Wright. Pennsylvania, 1967

Lara Vinca Masini

“Risultano immediatamente evidenti. anche ad un esame esterno dell’opera di Raspi, la coerenza estrema e la dignità che hanno sempre accompagnato il suo procedimento operativo, secondo un percorso omogeneo e preciso, teso ad una semplificazione e riduzione di mezzi, alfine di una chiarezza espressiva che trovi, in un ricorso a elementi essenziali ed essenzializzati di linguaggio, il più scoperto e compromesso termine di ‘intenzionalità’ poetica, non mascherata o ‘trasferita’, ma diretta e chiarissima, tale che, pur senza violenza esterna, impone all’osservatore, con inflessibile forza, la sua stessa, severa autodisciplina.

Basti vedere come sia riuscito a condurre la sua esperienza sul piano più scoperto, fino a farne una regola di comportamento etico, fino cioè a porla in una condizione di continua dialettica attiva senza tradire una sua gelosa e personale interiorità, e senza peraltro rischiare il pericolo di un intimismo disancorato ed esistenziale.

Con un processo riduttivo di perseverante controllo razionale, egli è riuscito a tradurre in termini di pura rarefazione il tracciato visibile di un’idea, riuscendo a cogliere il punto di sutura, lo scatto, ancora sfuggente all’ ultima analisi razionale, che distingue l’elaborazione del linguaggio dal limite di raggiungimento poetico, che resta sempre il fine ultimo, sul piano della qualità, della ricerca artistica. Ciò non toglie che il rapporto diretto, fisico ed emotivo con l’opera sia ridotto al minimo – il piano di fondo – aperto ad un ‘espansione indefinita, non reca traccia, nel grigio-nero soffice e incorporeo, del gesto diretto. Ne deriva un linguaggio teso, segreto, una sorta di ‘fortissimo nel pianissimo’ che proprio nel silenzio riscopre la forza più violenta del grido.

Né per questo cessa, quella di Raspi, di costituirsi come operazione a sfondo intellettuale, radicata, dialetticamente, nella storia, in assonanza diretta con una delle due polarità continue del processo di creazione formale, che trova il suo fulcro determinante nella storia artistica del nostro secolo (da Mondrian e Klee a Fontana), ma ha il suo riferimento ‘permanente’ nello svolgimento storico delle arti di tutti i tempi, nella limpida vena di poesia di Petrarca, per esempio, di un Piero della Francesca, nelle cadenze solenni e geometriche di Bach.

Quello di Raspi è uno dei casi in cui la cultura storica diviene stimolo di creazione poetica fino a sollecitare l’ideazione di immagini visuali cariche di una loro assorta, intensa emotività.”

1961

Giuseppe Marchiori

“Nella sua formulazione costruttivista, la pittura di Raspi si limita allo schema strutturale della materia. Andando più avanti e sviluppando i propri concetti, Raspi arriva a conclusioni che si manifestano nell’attualità della materia informale che si trasforma in ‘spazio interiore’ come rifugio di un’ultima speranza, concessa all’ uomo, a conforto dell’angoscia, che il tempo aggrava, al di là di ogni limite tollerabile.

Oggi l’angoscia è cosmica, è un male che incombe, come una forza misteriosa e crudele.

Un artista come Raspi, inquieto e attento, lacerato nell’anima da una disperazione che nasce dalla sua stessa profonda umanità, sa imporre anche alle forme, che più si legano alla poetica dell’informale, il senso e il significato di una precisa concezione della vita e di una esperienza umana.

La presa di coscienza dell’artista avviene in una continua invenzione formale, nello sfruttamento espressivo della materia, per unione o per contrasto, e ciò al di fuori dei metodi del classicismo accademico, con influssi e apporti di pratiche artigianali. La gamma delle possibilità di rendere significante nei severi limiti dell’espressione artistica una nuova materia, attraverso un procedimento inventato, si estende secondo la misura, sempre più vasta, della spregiudicatezza creatrice. Con tale libertà di spirito e con tali metodi non ortodossi, ottiene spesso i risultati più sorprendenti.”

1962

Giovanni Carandente

“Le recenti opere del pittore Piero Raspi hanno posto in evidenza, soprattutto, il raggiunto grado di maturità del giovane artista spoletino: venuto fuori, con sicuro spicco, da quell’ insospettato vivaio di pittore affermatosi nella Città umbra e segnalato ormai da anni all’ attenzione del pubblico da molti critici.

Il pittore Raspi, che si avviava fin dai suoi inizi a una solitaria meditazione, scava oggi nella materia della pittura per testimoniare della sua volontà quasi ascetica, mortifica il colore alle più degradate gamme di bruni e di grigi, semplifica l’immagine, nella grande spaziatura della tela sino a farle assumere l’aspetto di un’impronta negativa. Vien fatto di ricordare quel senso oscuro di morte che si posa sulla leopardiana ‘nostra ignuda natura’, spogliata di ogni prospetti va storica, di ogni peso della cultura, perfino del riflesso della vita esterna.

Nella severa ricerca di Piero Raspi tanto più appare l’alto potenziale poetico, quanto più questa spoliazione cosciente si fa partecipe della responsabilità che compete all’artista moderno. Il pittore vive con la coscienza di quanto si avvera intorno a lui, riceve come per l’attuazione di un campo magnetico, il messaggio della civiltà artistica entro la quale egli è situato, ma di tutto ciò egli non raccoglie che l ‘eco, e quei suoni, come indistinti, vanno spegnendosi a mano a mano che egli concreta la sua immagine.

Nelle grandi tele monocrome di Piero Raspi, le larghe zone di colore si articolano per la sola forza dialettica del chiaroscuro. Il pittore umbro assottiglia la sua visione, la fa sembrare, alla fine, la sintesi di tutto un esame interiore, eppure la spontaneità lirica di questo linguaggio austero esclude ogni calcolo.

Pesano sull’artista le esperienze contemporanee, ma non ne annebbiano la schiettezza. I nomi di artisti come lo spagnolo Tàpies, l’americano Kline, l’umbro Burri, sono stati rievocati dalla critica come incontri culturali ai quali il Raspi ha potuto sottolineare la sua attiva partecipazione all’arte d ‘oggi, in quel repertorio informale che da alcuni anni va segnando fatti salienti della pittura d’avanguardia. Ma si potrebbe aggiungere una memoria più squisitamente italiana, il tonalismo severo di Giorgio Morandi, come una componente viva di questi brani fondi e scarni. Il lampeggiare che il colpo di spatola produce sul cupo fondo della tela è ancora un’immagine. E la pittura di Piero Raspi in questa immagine, o impronta, vuota ma non desolata, muta e non inerte, trova la sua ragione di poesia.”

Enrico Crispolti

“Raspi (all’Attico) conferma che il lavoro degli spoletini superstiti in questi ultimi anni ha fruttato tre assai notevoli personalità d’artisti (Raspi, appunto, e De Gregorio e Marignoli), oltre ad un proprio livello qualitativo e ad una civiltà di lavoro altrettanto significative.

Raspi combatte su una linea che ha i suoi avamposti in Morlotti, e che perentoriamente viene a riproporre una condizione di presenza della fenomenologia ‘naturale’ alla rinnovata coscienza e sensibilità odierna. Presenza che significa netto superamento della condizione meramente visiva e fantastica, tuttora dignitosissimamente assecondata da Ajmone, per una intelligenza di come la suggestione ‘naturalistica’ non possa che divenire, oggi, concretezza ed immediatezza di materia, e traslato e memoria soltanto attraverso di essa. Un hic et nunc concreto e reale che dispieghi un patrimonio di memorie, pur mantenendosi intatto nella sua natura di imminenza e verità non ulteriormente opinabile.

Raspi si distingue per una qualità lirica di sottigliezza, di intensità emotiva distillata in una pluralità consonante di minori episodi, piuttosto che nel timbro improvviso e sovrastante, che è pittoricamente una ricchezza ‘tonale’ di significativa complessità.”

Nello Ponente

“Raspi cominciò a dipingere secondo i moduli del postcubismo, passando subito dopo, logicamente, ad una formulazione astratta dell’immagine. Il clima in cui opera attualmente è quello comunque della drammaticità della forma, distrutta e ricreata in una nuova dimensione, che è caratteristica della giovane pittura. Direi che questa drammaticità della forma scaturisce proprio dall’antinomia tra una coscienza dei propri contenuti e la necessità di sperimentazione continua sul mezzo espressivo, non stabilito a priori e tanto meno adoperato in uno schema che abbia un significato una volta per tutte.

Un certo automatismo è quindi presente nel processo compositivo, ma pur concedendo molto al proprio istinto di pittore, e ad un attivismo irrazionale, proprio per il rigore della sua precedente esperienza postcubista, ha voluto eliminare ogni sottofondo letterario e rinunciare al vago e al misterioso delle superfici, alla dimensione psicologica della forma. D’altra parte è vero che l’ immaginazione risolve quelle forme che l’intelligenza non potrebbe risolvere.

Allora Raspi filettava di linee, quasi a suggerire ampie campiture ma al di fuori di ogni ordito geometrico, una superficie in cui la materia pittorica brulicava di vitalità e si poneva come azione e non come contemplazione estetizzante. Quelle linee erano non tanto un arabesco sovrapposto, quanto la precisazione, ancora in superficie, di un tessuto compositivo che tendeva via via a costituirsi al di fuori di ogni decorazione nell’organismo stesso del dipinto, senza più fratture e senza più una successione temporale dei piani verso la profondità. Appariva necessario già allora individuare una nuova realtà spaziale, e quindi anche di tempo, che circoscrivesse con la maggiore precisione possibile i limiti in cui agire e nei quali rendere con efficacia la presenza delle immagini.

La realtà ha sempre avuto un valore riconoscibile al di del fenomeno: in Raspi essa è il prodotto della coscienza. La dislocazione dei segni e delle forme poteva avvenire nell’ ordine di una simbologia dell’ inconscio, ma veniva immediatamente assunta in una dimensione più concreta, individuata, e individualizzata, nella realtà della propria esperienza e della propria azione. Il problema era quello di risolvere tale modalità compositiva in un modo più efficiente, in cui nulla andasse perduto, e della realtà della forma immaginata, e della sua posizione precisa. Una necessità autre, quindi, ma al di fuori della calligrafia.

L’informale di Raspi, in definitiva, è sottoposto al controllo di un ritmo che non è soltanto di gesto, anche se è di azione, ma che è soprattutto determinato dalla coincidenza attiva tra il momento dell’ispirazione, istintivo e perfino irrazionale come si diceva, e la concreta realtà del ‘fare’ pittorico: l’una cosa e l’altra essendo interdipendenti. Il ‘fare’ corpo alle immagini e struttura ai dipinti; la materia è elaborata mentre si precisano le qualità compositive e spaziali; e questa materia, come ha notato con precisione Masciotta, ‘cresce, si espande, si arresta’. Aggiungerei che si carica di ogni significato, non discorsivo, di illustrazione, ma di complessa vitalità. Riesce quindi a contenere e ad esprimere, a ‘realizzare’, proprio nel senso preciso del termine che significa rendere reale, a modulare essa stessa, in se stessa, la forma, appropriandosene, eliminando ogni distacco dal mondo sensibile e riproponendola nella sua dimensione più vera, di partecipazione. Così i ritmi possono divenire violenti e rapidi, pur nella grande finezza pittorica che li sorregge, le superfici aggrumarsi o screpolarsi, i neri, i bianchi, le macchie intense, le colature riacquistare tutta la preziosità di un ‘fare’ spinto ad un alto grado di concentrazione e di tensione emotiva, soprattutto di sincerità espressiva.”

Pierre Restany

“L’universo di Raspi mi è stranamente familiare perché corrisponde a una visione del mondo che ho praticato, che ho adoperato per capire un grande momento di transizione culturale: quello dell immediato dopoguerra. Come si fa per arrivare ad una pittura che corrisponda proprio ad un elementarismo fondamentale a livello dei riferimenti culturali e psicosensoriali? Cioè come si fa per arrivare a questi “gradi-zero” della percezione umana e della sua scrittura? Ci vuole un’indiscutibile consapevolezza, della relatività del mondo.

E questo è molto importante, perché credo che, come i pittori dell’ immediato dopoguerra, traumatizzati dal secondo conflitto mondiale e quindi pittori di una antipittura personale, Raspi abbia saputo mantenere salvo in sé uno spirito di annientamento del superficiale: credo che sia questa la chiave di comprensione dell‘opera da Raspi; cioè la volontà di eliminare tutti gli elementi complementari, superflui, in modo da realizzare una specie di spartito musicale puro, con pochissime note ma con una vera scrittura, una voce, una tessitura fondamentale, elementare, determinante.

Questo tipo di discorso legato a una serie di constatazioni evidenti, oggi può sembrare ovvio. Ma non lo è, nonostante le apparenze. Per mantenersi aperti. disponibili a questo canto puro, senza l’illusione di certe costruzioni culturali o di certi sistemi mentali, bisogna anche mantenere in se stessi un grado di freschezza e di disponibilità. Essere aperti, disponibili all’ impulso della grande natura, è un fenomeno di igiene mentale! Questo fenomeno di igiene mentale e di disciplina della percezione l ‘ho sperimentato io stesso durante un recente viaggio in Amazzonia dove, durante quarantacinque giorni. solo con i miei compagni di viaggio, davanti al fiume, al cielo e al verde della foresta, ho fatto una specie di esame riassuntivo delle mie possibilità di disponibilità e di apertura percettiva.

Attraverso questo tipo di esperienza ci si rende conto che la cosa importante per i pittori di oggi, e forse anche per l’avvenire della pittura, è di mantenere questo legarne fondamentale con la natura, cioè con le possibilità di emozioni pure e non sofisticate, che non hanno bisogno di discorsi complicati per riassumersi e diventare una serie ininterrotta di proposte visive.

Esiste un continuum nella matematica, nel mondo fisico, esiste anche un canto gregoriano legato a una tonalità bloccata e uguale; ed esistono delle lingue senza accento tonico. Tutti questi fenomeni hanno in comune con la pittura di Raspi l’idea che la semplicità è unità e che l’unità non ha confine, non ha limiti se non quelli fisici della coscienza umana.

La sua bella storia è dunque una bella storia profonda; è una lettura in profondità, un ritorno alle sorgenti dell’esperienza umana e soprattutto della sua esperienza percettiva; è un ritorno alle sorgenti pure della nostra sensibilità.”

Da sinistra: Joselita Serra, Piero Raspi e Giovanni Carandente. Roma, 1967

1963

Francesco Arcangeli

“Diverse le qualità di Raspi; e anche lo svolgimento e il significato della sua arte. Quanto Bendini è severo, e quasi nordico nelle sue ossessioni; altrettanto Raspi gravita con sicurezza, si direbbe quasi con atavica inerzia, sulle sue doti di misura mediterranea, già ben note e collaudate in Italia. Un altro talento italiano, dirà qualcuno. Ma quanti ne abbiamo conosciuti nel tempo, aggiungerà qualche altro, con compiacimento evidente, ma forse con sospetto nascosto. Gli italiani! Cantanti, violinisti, pittori, artigiani, cuochi magari. Grandi esecutori ‘virtuosi ‘. Quanti approdi alle rive britanniche, dai tempi del ‘Gran Tour’, quanti successi, quanto diletto! Quante intime delusioni, anche? Ma la sapienza di Raspi, pure entro il suo limite, è altra cosa. È una sapienza formale apparentemente scontata, e già chiusa fra Burri e Tàpies; ma, dai loro immensi, atoni o drammatici spazi di antichi mediterranei, di cui sembra prigioniera, essa è riemersa in modo nuovo e sottile, con una sua interna e non vana misura, cui sempre finisce col riportarsi. La sua pittura non è assoluta come l’arte di quei famosi; ma non è certo, d’altra parte, vuota imitazione assorbimento diretto.

Il fascino della pittura di Raspi prende pian piano, con la sua nascosta ma vivente calibratura, che è appunto connaturata a una sua poetica ‘inerzia’. Quella inertie, su cui vive così brillantemente, in un esercizio della mente e del pennello, l’arte di Georges Mathieu, è invece, in lui, intima sofferenza di chi tace e aspetta che le cose tornino a lui, riflessione, lento vaglio di coscienza e di temperamento. Bisognoso d’una misura, Raspi scelse presto, nell’area dell’informel quei maestri, come Burri e Tàpies, che gli proponevano una immensità, una libertà ferma, non dinamica. Rothko venne più tardi, e non agì su di lui. Raspi affrontò quei maestri, lui così riflessivo, direttamente, apertamente, al rischio di esserne fagocitato. Fu questa un’epoca di bella qualità, ma certo meno personale. Anche nel bellissimo Relitto del 1960, qui presente, parrebbe che il suo compito fosse quello di rendere intimo e profondamente piacevole, di spegnere, ciò che nell’epoca più alta di Burri e nei momenti più profondi di Tàpies fu spietatezza di mente e di sensi, sete d’assoluto. Ma Raspi aveva, anche lui, una sua origine. Lavorando nella sua incantevole, aspra, assorta Spoleto, era stato, negli anni fra il ’54 e il ’58 all’incirca, un bravo, serio postcubista, e come tale aveva avuto buoni successi in Italia. Ora la sua vecchia e non pedissequa educazione riemerge, diradata, spoglia, ma non assente, nel ricondurre, gli spazi, spogliati dalla densità della materia, in un letto di geometrica rarità.

È una geometria ormai affidata ad una arcata vasta e ferma di sensi e di mente, come non potrebbe essere dopo i contatti con Burri e con Tàpies; ma è una rinnovata geometria che ne fa, appunto, la visione più personale.

Sono, ora, grandi interni oscuri, dove appena si affacciano cose ormai del tutto illeggibili, quando è ormai la loro sola presenza, e non la loro esplicita oggettività, a valere. Sono paesaggi aperti, lunghi tragitti d’orizzonte; colline, ma ormai ‘al di là’; la terra ancora, ma quasi avvistata dall’oblò d’un missile fermo, dall’occhio spento d’un calmo astronauta. È un occhio che si posa su discrimine infinito fra una terra bruna, macera, e un cielo verde, spoglio, approfondito dalla sua stessa arida inabitabilità.

Così mi si configura, all’incirca, la nuova ‘inerzia’ di Raspi. A differenza d’altri giovani d’Italia che ebbero successo, marcato, e non più, egli è riemerso alla distanza, senza scalpore, dal mare anonimo su cui si era così coraggiosamente imbarcato. Credo che i suoi ultimi quadri promettano, col calmo e solenne riapparire dei loro antichi e quasi irriconoscibili temi, col loro rinnovato equilibrio fra misura e natura, lunghi anni d’esplorazione e d ‘approfondimento.”

1964

Giulio Carlo Argan

“La fase attuale della pittura di Raspi è, nella sua sostanza problematica, eccezionalmente lucida; perciò, nella sua situazione odierna alquanto agitata e confusa, è da prendere seriamente in esame. Dopo l’esperienza informale, compiuta per vie inconsuete e senza alcuna concessione alla moda, Raspi non si è posto il dilemma dell’apocalittico e dell’integrato. Sapendo di aver toccato un limite, non si è dedicato a recuperi inutili: poiché nulla poteva esserci al di dell’esperienza compiuta che non avesse in essa i suoi motivi, ha intrapreso un’analisi metodologicamente precisa del processo della propria pittura.

È arrivato alle conclusioni che, intanto, provano come la materia dell’informale non fosse affatto un termine oltre il quale nessuna ipotesi era più proponibile. Già nella fase informale Raspi non aveva cessato di sondare la penetrabilità e la praticabilità della materia, cercando in essa una possibilità di esistenza che non si confondesse con quella della materia stessa; e aveva così ritrovato stratificazioni d’immagini, profondi percorsi segnici.

Dopo essere riuscito a diradare, forare e oltrepassare il muro della materia, la prima domanda doveva necessariamente riguardare la dimensione, certamente non più esistenziale, che si apriva al di e di cui non era dato sapere l’estensione. Tutto ciò che di esso sapeva, per la comune nozione, era che essa si presentava non più come sintesi, ma come ‘continuo’ spazio-temporale.”

Da sinistra: Piero Raspi, Palma Bucarelli e Giulio Carlo Argan. Roma, 1965.

1982

Luigi Lambertini

“È dunque opportuno puntare subito l’attenzione sull’attuale mostra che in pratica presenta caratteristiche analoghe a quella di tre anni fa, con notevole successo, fu allestita al Museo di Saarbrücken con un titolo che riassume appieno la tematica finora svolta e cioè Nuovo naturalismo umbro’ (in tedesco invece recitava:Paesaggi Informali”).

I tre pittori di questa selezione sono presenti con dipinti che vanno dal 1956 al 1960. Come dato costante c’è da rilevare nei primi quadri un’impostazione che, nella varietà dei temperamenti dei rispettivi autori, non è soltanto di radice naturalistica, chiamando in causa desinenze d’ordine ‘astratto-concreto’. Si tratta, ed è bene porre subito nel dovuto risalto il particolare, di una netta scelta di campo, la quale, oltre al resto, denota appieno una lucida intelligenza critica, considerati la situazione e i fermenti di anni che ancora risentivano della drastica frattura del ‘Fronte Nuovo delle Arti’.

I tre spoletini dunque ebbero idee chiare, attenzione pronta e, ciò che conta, palesarono una sensibilità pittorica di tutto rispetto che li pose in breve, nell‘ambito della giovane pittura del momento, all’attenzione della critica più avvertita.

L’esordio di Piero Raspi fu contrassegnato da opere di sorprendente qualità, una qualità, è bene osservare, che lasciava sempre affiorare uno spessore mentale, meditativo, tra il trasognato e il nostalgico, in uno scavo che non privava certo di immediatezza il dipinto, ma che al contrario veniva ad accrescerlo di vibrazioni recondite e di accenni ora subito placati, ora invece accesi come da una inusitata vigoria.

Nel 1958 Francesco Arcangeli, dopo averlo chiamato ‘uno dei pittori di buona civiltà italiana’ che si sono inseriti naturalmente, chi un po’ prima, chi un po’ dopo, in una cultura post-cubista arricchita di elementi sensibili e di bei timbri cromatici, pose in evidenza l’esistenza di un rapporto strettissimo tra tono, materia ed immagine. In effetti i quadri di allora sono tutti orchestrati, e con estrema sensibilità, in maniera tale da raccordare questi elementi tra loro con una sapienza duttile, grazie alla quale il pittore riesce a calibrare nel suo insieme l’opera, vuoi da un punto di vista cromatico, vuoi da quello compositivo; e qui risalteranno ‘entro le antiche strutture quasi cancellate, nuovi coaguli visivi in maligni toni ferrei’.

Sembra che un brivido abbia pervaso la superficie dipinta per rapprendersi e fermarsi con l‘evidenza delle sue interne tensioni e di quello spleen che ne permea così a fondo la realtà, tanto che non si può non essere d’accorcio con Calvesi il quale ebbe a precisare che Raspi ‘fila e annoda, con risentita eleganza, spessori essiccati di materia, rastremandoli sottilmente, quasi in un recupero psicologico di prospettiva e sovrapponendo a spazi naturali ( ) l’incombenza di sofferte e interne minacce’.

Tali riflessioni di spazi e di decantate presenze, si pongono dunque in quella loro melanconica così stratificata, come lo sono talvolta i colori stessi, che poi si riaccendono con equilibri di lancinante e di sempre pulsante verità.”

Filiberto Menna

“Postcubismo, astratto-concreto, informale e perfino il recupero di un’intenzione di più distesa ma non naturalistica narrazione, sono stati certo momenti importanti nella vicenda culturale di Raspi, che però li ha sempre accettati, per quel che poteva ricavarne, attraverso un’oculata operazione critica, senza sacrificare ad essi nulla della sua chiara concezione della pittura. Proprio questa capacità di elaborazione critica ha permesso ancora oggi a Raspi di operare un rinnovamento della struttura dei suoi dipinti, per mezzo di una semplificazione dei momenti pittorici e dell’ organizzazione compositiva, senza comunque rinunciare a quell’intensità e qualità cromatiche delle stesure materiche sulle quali si fonda tutta la sua esperienza.

Continuità, quindi, nel rinnovamento: i quadri di oggi propongono, infatti, un’intensità che non è minore delle precedenti, ma che è regolata da una nuova illuminazione particolare che sottolinea con maggiore coerenza e unità il succedersi degli eventi, in una diversa sintesi dei momenti narrativi. Il movimento della materia subisce un maggior controllo e più evidente appare il procedimento della sua elaborazione. Il tempo della narrazione risulta più unitario e lo spazio, come sempre, di dimensione antinaturalistica.

Il valore si determina nell’intenzionalità di questo procedere che solo apparentemente può sembrare tradizionale, ma che in realtà è quanto mai nuovo perché, confidando nella sua autonomia, ricerca la possibilità di nuove strutture.

Questi suoi quadri non ci propongono un piacevole giuoco cromatico, ma quasi il simbolo di una continua trasformazione dell’inerte in vivo, dell’assoluto immobile in aspetto variabile e transeunte. Dalla giustapposizione di elementi semplici, nasce una vibrazione continuamente diversa, rispondente a un sentimento di eccitazione sensoriale quanto psicologica. La materia prende vita per un procedimento ottico: a specchio però di una situazione interiore, sentimentale quanto mentale, e non di un dato visivo esterno scelto a simbolo del proprio sentimento.

Ma a far vibrare in effetto ottico che efficacemente traduce in visibilità un moto psicologico, questo dato di brutta realtà non ancora appercepita, ad animare tale elemento primario, ecco il sempre vario elemento complementare della ordinata ripartizione della trama concisa, gli accenti che permettono di leggere, che danno senso alla frase. Da questa trama limpida e semplice di colori, da questa negazione di una luce atmosferica, in un ordine che si direbbe velleitario, nasce invece un discorso libero, aperto che realizza una concentrazione emotiva alla quale lo spettatore non può sottrarsi e che non può interpretare in maniera diversa da quella in cui gli viene proposta. E questo significa che l’artista ha la più completa fiducia nelle possibilità di comunicazione della pittura. L’opera cerca un rapporto diretto, già previsto, e non lascia adito a letture diverse: ha le sue concrete motivazioni e le comunica. La pittura è così una ‘necessità di comunicazione’, per dirla con le parole che Raspi stesso ha usato per definirla. Nasce dall’urgenza del tempo in cui si realizza, dalla presenza della memoria, dalle sensazioni che affollano l’inconscio e la mente e che vengono poi a chiarirsi, attraverso una cosciente operazione, nella dimensione organica e normativa dello stile.”

1983

Cesare Vilaldi

“Piero Raspi è stato, negli anni Cinquanta e nella prima metà degli anni Sessanta, la vera e propria ‘punta di diamante’ del ‘Gruppo di Spoleto·. Gruppo che ebbe una sua parte non trascurabile nell’elaborazione e nella diffusione delle poetiche dell’‘informale’ italiano. Rispetto agli altri componenti il gruppo, De Gregorio e Marignoli, Raspi è stato sempre il meno ‘naturalista’, il più attento a Burri e al coté astratto dell’informale, il più acuto nel mediare le istanze naturalistiche di un Arcangeli con i portati estremi della pittura autre europea e americana: Burri appunto, ma anche Tàpies e persino Rauschenberg e Twombly. Per anni poi Raspi si è estraniato dalla scena artistica, e solo oggi ha accettato di mostrare il suo lavoro recente: fedele alle premesse degli anni Sessanta eppure nuovo, di un’astrazione lirica sottilissima.”

1991

Giorgio di Genova

“Intanto, nonostante il gran parlare che agli inizi degli anni Sessanta si faceva circa situazioni oltre e dopo l’Informale, l’esperienza informale, anche se da tempo già covava nel suo seno i germi ‘oltre l’informale’, i quali determinarono quelle nuove tendenze che connoteranno gli anni Sessanta, in questo periodo appariva tutt’altro che esaurita.

Piero Raspi, anzi, la stava vivendo appieno agli inizi del Sessanta, portando avanti le stesure a spatole di colore e pasta spessa avviate tra il ’57 e il ’58. Raspi è umbro, come Burri, e come lui ha un forte sentimento materico. Ma, mentre Burri è un mistico della materia, Raspi è fortemente terragno. Non è un medico, che scopre la pittura quasi occasionalmente, riversandovi poi le proprie suggestioni mediche, o quelle della religiosità umbra, come fa Burri con le muffe, da cui si era da poco cominciato ad estrarre la penicillina e con i sacchi, in cui non è difficile riscontrare, accanto alle ferite ulcerose e alle cuciture a punti chirurgici, la scelta d’un poverismo pittorico esemplato sul saio francescano. Raspi proviene da studi di architettura e sceglie subito di far pittura come si fanno gli intonaci nella loro prima fase elaborativa. La pasta del colore, di fisico spessore come all’ epoca usava, viene stesa sulla tela con la spatola a grandi strisciate. In una riduzione ai minimi termini del gesto, scelta per ottenere un massimo di materismo, Raspi sembra intonacare la tela con una pasta pittorica, che potrebbe essere la mistione di quelle di Fautrier, Dubuffet e Tàpies. A ben guardare, egli stende e schiaccia il colore sul supporto, come per incollarvelo sopra. La sua pittura si potrebbe definire collage materico, o perlomeno pittura che si richiama alla tecnica del collage, del resto da lui praticato, quasi a livello di materismo decantato.

Il tachisme con lui si dilata al massimo limite e raggiunge l’iperbole assoluta. I suoi quadri sono territori della materia e la sua materia traslato ora della terra, ora del muro. in un azzeramento dell’immagine, che assume la connotazione di ultima spiaggia del materismo. Materia e sensibilità pittorica in Raspi coincidono. Il levare materia con punte, cui talvolta ricorre, è in realtà. a differenza della dimensione d’incisore di Ricci. u n esaltare lo spessore della materia, che viene vista come elemento costruttore di geometrie informali in positivo e in negativo, almeno dal ’60 in poi. come meglio chiariscono certe opere del ·63, nelle quali riemerge il bisogno di una geometria, che riquadra o scandisce per linee rette, vieppiù emergente nel ’64-·65, fino al punto di riassorbire la materia nel pennelleggiare, che è il suo modo di risentire delle pressanti istanze ‘oltre l’Informale’. Come nei collages, tutto avviene in superficie, fino a rasentare una sorta di neoplasticismo materico-informale. ( …)

( ) Raspi, abbandonate le indicate tendenze di geometria pop, torna ad una pittura tutta di superficie. Solo che ora non si tratta più di muri, ma di forme, dall’anima geometrica (d’una geometria minimalista, tuttavia), le quali s’inseriscono all’interno della superficie, che il più delle volte le incornicia. Il materismo di un tempo si è del tutto prosciugato, lasciando il campo a un fitto pennelleggiare diluito e trasparente che lascia intravedere il colore della preparazione e che trova la sua vibrazione luminosa in una sorte di coprente pioggia esecutiva, certo conseguenza delle striature delle opere degli anni Sessanta, nelle quali è rintracciabile anche la struttura base dei quadri degli anni Ottanta.”

Ritratto della fine degli anni Novanta.

1998

Giovanni Carandente

“Come Aligi, Piero Raspi dopo un lungo sonno è tornato alla sua culla. E alla pittura. Come spiegare il protrarsi di tanto silenzio in una natura così spontanea di artista, tanto più che le prove che aveva dato erano state di ben alta qualità e assolutamente primarie nel panorama artistico italiano degli anni Sessanta? Mistero dell’umana psiche, schopenhaueriana dimissione o non piuttosto l’insoddisfazione che è tipica del vero artista che si interroghi a fondo sul senso da attribuire alla propria opera? Quel che conta è che nel silenzio Raspi abbia continuato a dipingere, sia pure a intermittenza, riuscendo, certo non senza tribolazione, a tener ferreamente celato il suo lavoro, appartato nel proprio invalicabile segreto eppure fedele alle premesse, al codice linguistico che si era assegnato in gioventù, coerente con i mezzi espressivi che aveva eletti, rinserrato nella stessa modalità di una pittura che venne allora definita “astratto-concreta” perché era l’immagine dell’elemento esistenziale congiunto con quello naturale. Ed è ancora più strano che un cospicuo numero di collages e di dipinti su carta, rimasti del tutto sconosciuti, databili quasi tutti agli stessi anni Sessanta, contengano una tale sorprendente attualità di linfe sorgive e vitali.

Di Raspi ci occupammo tutti noi critici, in quegli anni. Lo designavamo, Argan, Arcangeli, Calvesi, Menna, Boatto, Marchiori, Marisa Volpi, Vivaldi, Sandra Orienti, Crispolti, Battisti, io stesso (e la lista non è completa), unanimemente come uno dei pittori più fini e sensibili che l’informale italiano avesse prodotto. E non solo. I confronti che si tessevano tra la sua pittura e quella della congerie internazionale allora in auge – Fautrier, Wols, Tobey, Gorky, Rothko, De Kooning, Tàpies, Rauschenberg – lo situavano a un livello assai meno ristretto che quello umbro o spoletino, anche se da questa terra egli aveva preso le mosse e come Burri se ne era fatto interprete appassionato e, alla stessa maniera, umile e spoglio.

Il suo emergere nuovamente alla ribalta della storia è perciò non solo una dovuta riparazione ma è una rivelazione felice, sicché questa mostra insperata diventa l’occasione per divulgare quanto nel silenzio di tanti anni era stato ingiustamente accantonato. Una sessantina di opere tenute celate nelle cartelle private dello studio (come accadde per Picasso, allorché gli atelier del pittore lasciati gremiti di opere ne rivelarono aspetti che erano rimasti ignoti) compongono una singolare antologia che fa da legame tra le opere note del periodo giovanile e quelle della seconda fase, ripresa all’incirca all’inizio degli anni Ottanta.

La visita che feci nello scorso inverno alla casa romana e allo studio di Piero mi lasciò letteralmente interdetto. Il folto gruppo di opere non faceva che confermare quanto avevamo scritto di lui quasi quarant’anni fa: l’elogio della sua ricerca severa, della sua leopardiana visione delle cose, del suo stile che fondeva il vibrante tonalismo morandiano con l’ampio e franco gesto dei pittori americani dell’Action Painting.

Gli anni Sessanta furono una stagione particolarmente felice per l’arti e Raspi ne era un protagonista. Era anche il tempo poetico della nostra gioventù e come scriveva allora Pierre Restany quell’arte era a tutti noi familiare perché corrispondeva ad una visione della vita come noi la vivevamo ed era, allo stesso tempo, la chiave per aprire la porta alla transizione culturale che era in atto nel mondo di qua e di là dell’Oceano. Restany fondava proprio allora a Milano il Nouveau Réalisme che fu – non va dimenticato – il vero fondamento europeo della successiva Pop-Art Americana. Il critico francese non mancò, parlando della pittura informale di insistere su quanto fosse fondamentale che la pittura astratta riuscisse a mantenere come faceva appunto Raspi, un legame con la natura attraverso “emozioni pure e non sofisticate”.

L’arte di Raspi si condensò infatti su quel tipo di approccio alla realtà con una sensibilità tutta propria, schietta e primordiale, fatta di evocazioni spontanee e naturali, sia inserendo, come faceva allora Rauschenberg, rimandi a una realtà oggettuale, sia realizzando una più gestuale visione cosmica e il pensiero corre alla pittura di Soulages e di Franz Kline, il quale ultimo proprio in quegli anni divideva a Roma lo studio con Afro e Scialoja.

Per Raspi, a quell’epoca, la pittura era – a suo stesso dire – una “necessità di comunicazione”, egli che si era inizialmente avviato agli studi di architettura, un modo diretto di rendere le sensazioni del tempo, dunque della memorai, il pressare dell’inconscio dunque dell’esprimibile, la materialità dell’esistenza, dunque la visibilità. Un valore informale – dichiarò nel 1964 a Calvesi – egli vedeva persino nel gesto pop di Jasper Johns e quanto gli inediti suoi collages si rivelino ora prossimi alla lirica trasposizione di oggetto che è nell’opera dell’Americano è superfluo sottolineare.

A Eugenio Battisti dichiarò in quello stesso anno in un’intervista che apparve su L’oeil: “Quando parlo di realtà nella pittura, di realtà come supporto preciso delle cose, mi riferisco alla superficie che scelto per i miei quadri, ai colori, alla materia. Sono queste le realtà di base. In pittura la realtà non è per me rendere astratti l’uomo o le cose. Posso risalirvi attraverso elementi che per una sorta di coincidenze o di intensità di rapporti riescono a costituirsi essi stessi realtà”. Poiché la vita – aggiunse – “è tessuta di umilianti ed esasperanti sincronie, di cose che si polverizzato al solo toccarle, io tento di recuperare queste realtà facendole riaffiorare dalla coscienza”.

Egli intendeva dunque creare con i mezzi della pittura astratta una seconda realtà che rispondesse esclusivamente a valori visivi.

Sono tre oggi di conseguenza gli aspetti dell’arte di Raspi che si possono delineare con chiarezza. Il primo ci viene fornito deal gruppo delle opere note, create tra il 1959 e il 1964, per lo più dipinte a pasta piena, con grande risalto materico, con toni fondi e cupi e con sciabolate di un magma monocromatico su cui si addensano le ombre ma anche affiorano spiragli di una luce fredda e tagliente. Si pensa alle contemporanee esperienze di Tàpies e, certo di Burri. Seguono i collages di cui si è detto, per tutti una novità. Essi arricchiscono con una straordinaria varietà di proposte la conoscenza che avevamo del pittore.

La selezione che se ne è fatta per questa mostra sarà per tutti una stimolante sorpresa. La varietà dell’ispirazione, la sicurezza del dominio dello spazio, la ricchezza di invenzioni e, in taluni, la scintillante vivezza del nutrito corpus dell’artista.

Vengono infine le opere recenti, che sono databili a partire dal 1980. In esse, Raspi rivela anzitutto un’insistita meditazione sulla spoliazione formale e sull’interna luminosità dell’opera di Rothko. Come accadde al grande Americano di Dvinsk, Raspi fa soffiare un dolce vento sul deserto dei colori. Quella brezza che alita sugli scarni verdi, arancioni, blu oltremare o ocra fa vibrare il colore per il solo fatto che esso, il colore, esiste.

Vi sono anche dei bianchi e dei neri (ancora echi di Burri e di Fontana) e dei rossi accesi e dei turchesi smaglianti, nei quali è semplicemente il rapporto – o non l’accordo? – cromatico a formare l’oggetto del dipinto.”

Flavio Caroli

“Fu Francesco Arcangeli a mostrarmi per la prima volta il lavoro di Piero Raspi, e il ricordo di quei minuti, anzi proprio di quel dito indice puntato sulle immagini, credo davvero che nella mia mente non si cancellerà più, perché quelli erano i momenti migliori del mio maestro.

In Arcangeli convivevano due nature: una era passionale, totalmente implicata nelle cose, sposava totalmente ciò che “tirava” nella direzione delle sue idee. Ma subito dopo sopravveniva una sceltissima, lontanissima aristocrazia intellettuale, uno spasmodico senso della qualità, il pensiero (addirittura estetizzante: e non parrebbe di poterlo dire) che la qualità, appunto, è cosa talmente rara da dover essere riconosciuta e amata ovunque la si trovi, anche quando non dice esattamente, o totalmente, ciò che si vorrebbe sentire. Capiva Arcangeli, quel giorno, che opere di Raspi come Traccia in bianco, 1960, o Nozze di Radium, 1964, portavano in sé una ritrosia, una esitazione a coinvolgersi del tutto nel mare della vita e dell’Informale, che le allontanavano, almeno in parte, da molte vocazioni suicide di quei giorni: ma poi il suo indice percorse, quasi accarezzò le immagini ”C’è una luce bellissima…”, si lasciò sfuggire. E c’è una luce bellissima ancora oggi in quei quadri, che escono dall’Informale e vanno altrove: nel bagliore di spiaggia desolata il primo, accampata nello spazio come la duna di un pittore olandese del Seicento, e però assillata dal possesso degli spazi di un pittore olandese più vicino a noi, Piet Mondrian: così come c’è una luce bellissima, di visione e di inferno, nella falcata di materie colanti del secondo dipinto, che azzanna la tela come un putrido, ma ordinato, liquame dell’aldilà.

Questa mostra di Piero raspi è insomma uno degli eventi che contano nella storia della pittura italiana. Luce, calibro, straziante senso della qualità, lotta furibonda per agguantare il senso, un senso, delle cose con un ineffabile qualcosa in più, che potremmo definire “monomania della cosa”: la caccia disperata ad un’immagine, a un’entità, che coincide totalmente con la vita, e che solo nel momento in cui verrà espressa, o realizzata, darà senso, un senso, alla vita stessa.

C’è tutto questo in Piero Raspi: questa mostra ha la forza di raccontarlo; ed è per questo che chi abbia occhi per vedere la sentirà addirittura esemplare del travaglio che ha scosso l’intero “pensiero in figura” italiano, in questo dopoguerra.

Io non c’ero a fianco degli artisti in quel 1964 che portò alla biennale di Venezia il mondo infinitamente poderoso e infinitamente lontano della Pop Art. Ma posso capire ciò che accadde nei loro cuori da un quadro come Opéra Comique, appunto del 1964. Per un quadro come questo, Raspi deve aver fatto appello a tutti, proprio tutti i cromosomi della grande pittura italiana; deve aver visto baluginare nelle sue pupille architetture umbre su cieli di cenere, e vampate di nero corrodere verdi marci e penicillina, e note dolorose esaltanti di rosso far vivere la superficie esattamente come i rossi di Raffaello facevano vibrare il placido deliquio di un paesaggio incenerito dal tramonto. Italia, pittura italiana.

E non lo si dice genericamente, perché un quadro come questo non può essere francese, né inglese, né americano. Questo è il punto evolutivo di modernità cui doveva spingersi la pittura italiana in quegli anni. Cominciavo invece a esserci, vicino agli artisti, nel ’69, talché capisco benissimo la crisi di rifiuto e di annichilimento (tanto grave da costringerlo ad abbandonare la pittura) che colpì Raspi in quell’anno. E c’ero poi nel ’78, quando parve di sentire un respiro lontano e sottile, i sintomi remotissimi della vita che poteva tornare. È infatti un enorme e segreto respiro quello che scorre sulla tela di Raspi, nel ’78 con Aphia.

Un delicatissimo palpito dei bianchi che vibrano nella luce, che fanno capo con essa, che la bevono al punto di stabilire una risonanza simbiotica in cui i loro (bianchi e luce) cominciano a stringere le leggi di una nuova pittura. L’immagine risolutiva, la ‘monomania della cosa’ è lì, a un passo, non può essere rifiutata, va presa per quel che è una visione, o il ‘ sogno di una cosa”.

La vita ricomincia per Raspi, nel ’78. Sarà brillante, addirittura divertita, in Maveri, 1981. Comincerà a stringere assoluti accecanti in Spectra, 1981, parete di bagliori gialli, oltre ai quali comincia ad intravedersi la ‘cosa’, la verità o una verità. Continuerà nella produzione degli ultimi anni, straordinaria per potenza e finezza, pur senza rinunciare neppure per un istante alla propria ritrosia, perché la ritrosia è l’arma di chi sa che la verità dista sempre una frazione di millimetro o un miliardo di anni luce dall’ultima delle nostre cellule. C’è una linea che non saprei definire altrimenti che ‘di classe’ nella pittura di questo dopoguerra. A questa ‘linea di classe” Piero Raspi appartiene con tutta la sua storia, fra le ansie del passato più recente e le luci (un po’ minacciose un po’ seducenti) di un futuro che sta già cominciando.”

In visita alla scultura parietale presso l’Albornoz Palace. Spoleto, 2001

2002

Enrico Mascelloni

“Tra i protagonisti dell’informale italiano Piero Raspi era il raffinato, il sapiente impaginatore, il domatore di ogni increspatura della materia pur quando tale materia sembrava esplosiva e indomabile. Nel suo linguaggio coincidevano quasi senza residui una sensibilità acutissima e la capacità di dominare i procedimenti e le tecniche del far pittura. Alcuni critici come Arcangeli, che misurava la riuscita di un’opera sul metro visuale del ragù alla bolognese, finirono perfino per rimproverarglielo. Raspi, e non fu il solo, venne tacciato di eccessiva raffinatezza.

Ma tutto il migliore informale fu un esercizio paradossale, carico di eleganza e raffinatezza anche e soprattutto nei migliori, pur quando simulavano il contrario; un esercizio possibile soltanto in un Occidente estenuato e raffinato che ormai dominava il mondo e si permetteva di giocare con le “cose ultime”, fossero pure le cose ultime dell’arte. L’Informale liberava la pittura e la riportava ai suoi elementi primari di materia e colore (in qualche caso perfino di segno), ma ogni artista, fosse pure il più selvaggio e il più ideologicamente primitivo, si trovava costretto, dopo averla liberata, a ridomarla, ad organizzarla nuovamente, a sublimarla comunque. Il nodo dell’arte cosiddetta informale (ed il termine è in sé un controsenso, giacché anche il gesto pittorico più casuale e viscerale costituisce una forma, quanto meno perché ogni opera è una forma) non è mai in grado di liberazione dalla materia o dal colore, ma la loro riorganizzazione. In tal senso l’Informèl è già il suo contrario: è già in qualche modo un concetto: tutto quel profluvio di materia si basa su di un concetto esile e smaterializzato, che cioè la materia potesse essere libera, seppur tutta la filosofia dell’epoca non faceva che ripetere che l’idea assoluta di libertà si adatta ben poco alla materia, più di quanto sia già difficile porla in relazione all’uomo. È già arte concettuale l’idea che la pittura o la scultura possano tornare alla condizione di materia primaria o di colore assoluto o di forma naturale. Eppure è su questa base concettuale puramente virtuale che l’artista ricostruisce forme, rappresentazioni e perfino racconti. Certamente quest’arte che si vuole “informe” ritiene di contenere l’idea del caos da cui trae le proprie premesse concettuali, ma questa illusione è proprio la sua forza, è ciò che la rende intensa ed attuale in un mondo appena uscito dal terrore meccanico e poi atomico della seconda guerra mondiale. La forza del cosiddetto informale non è mai l’abbandono della forma, ma la forza e l’intensità con cui sa inventare nuove forme ed inedite rappresentazioni partendo dall’assoluto illusorio della materia libera, del colore puro, del gesto spontaneo.

Raspi non ha mai giocato con la violenza dell’epoca né con l’ideologia dell’originario e dell’incontaminato. Pittore raffinato e colto, non mancava però di audacia, ed il notevole ciclo di grandi collages sta a dimostrarlo. D’altra parte essa audacia conviveva con un carattere assai riservato, come tendono a dimostrarlo gli intimismi sottilissimi, veri e propri silenzi privati, di molti collages. Quando Raspi li alterna ai grandi quadri che lo avevano già reso celebre, è talmente convinto di una loro strana e privata inattualità che si rifiuta perfino di esporli. I primi sono del 1959 e intercettano tempestivamente un certo clima newdada che comincia a lievitare in Europa quanto in America. Il collage di elementi disparati era stato al centro di tutta l’arte cosiddetta informale (si pensi ai sacchi di Burri), ma era un collage muto, se così si può dire: tutto incentrato sulle capacità evocative e sulla condizione esistenziale della materia. Ora torna a parlare e Raspi non tralascia gli elementi “parlanti”: lettere, foto, oggetti. Certamente è ancora dominate l’effetto d’insieme, e il nero par voler uniformare, sin quasi a cancellarli, tutti gli elementi spuri ed eterogenei di queste composizioni. Ma ci riesce davvero?

Li vedo ora questi grandi collages luminosi seppur il nero ne sia quasi sempre la dominante; li vedo bena nella luce terza di Spoleto, mentre invadono le pareti, il letto, le poltrone della casa di Piero. Li vedo in tutta la loro complessità di opere grandi ed ambiziose, assai poco inscrivibili nel comune significato di “carta”, che generalmente sottintende i lavori minori e minimi, se non proprio gli schizzi al ristorante, di un pittore abituato ai grandi cimenti. Ognuna di queste opere è un lavoro complesso e raffinatissimo, dove ogni particolare è pesato nelle dimensioni, nel senso o più spesso nel non senso di ciò che rappresenta e che è sempre una mutilazione del contesto da cui proviene. Ogni particolare è pesato sia come contenitore di materia che di forma e significato.

L’opera sembra un campo strategico dove le affinità, le relazioni materiche e cromatiche non sono meno importanti delle rotture e dei conflitti, che tuttavia, come sempre in Raspi, trovano il modo di formulare un nuovo equilibrio. Ove sia assente il nero c’è il bianco a dominare la scena cromatica di questi collages.

Che non si tratti poi di opere minori lo dimostra definitivamente la differenza dai dipinti coevi, seppur in alcuni tra questi ultimi, come Ipercuore del 1964, si intraveda qualche elemento preso in prestito dai collages. Per il resto i due settori di questa strana convivenza si muovono autonomamente e paiono divergere in tutto: dalle dimensioni, all’impatto cromatico, a quello spaziale. I collages possiedono una ritmica e una lingua diverse da quelle dei quadri. Nei grandi lavori su tela dominano spazi vasti e austeri come deserti; il silenzio è la loro condizione essenziale ed ogni accumulo di materia è una tumefazione o una cicatrice. Raffinatissima estenuazione drammatica quella dei quadri informali di Raspi: resta la memoria e la grandiosità dell’episodio drammatico, ma tutto ormai è come accaduto e il campo pittorico è davvero un paesaggio dopo la battaglia. Nei collages il ritmo aumenta d’intensità; elementi disparati si giustappongono e incalzano alcune zone dell’opera, seppur il resto può essere occupato da un grande campo nero che placa e scioglie l’insieme. Ma la “lingua” dell’opera resta tuttavia diversa da quella dei quadri, e seppur il silenzio color sabbia di questi trova il suo contraltare nel nero incombente di quelli, nei collages c’è come un’esigenza di racconto: non tutto è accaduto, sta anzi accadendo ed il nero è una polarità piuttosto che un destino. Pur avendone fatto grande uso, Raspi non è “l’artista al nero” come tanti suoi colleghi di quell’epoca.  Non lo è perché il nero blocca l’estenuazione drammatica e chiude ogni discorso. Il nero è sempre un sipario. Il nero è un fine. Nero è l’ultimo taglio di Leoncillo e l’Annottarsi di Burri. Tendevano al nero anche i grandi quadri informali di Marignoli, seppur tutto il percorso successivo, che culmina nei limpidi “paesaggi verticali”, si riappropria della luce. Ma Raspi non è mai stato “artista del nero” neanche in questi collages dov’è pur dominante. Per quanto si ostini a voler invadere tutto lo spazio, come in Patibolo colpito dall’ansia, persino e giustamente irriso non soltanto dal titolo, ma anche dalle lettere e dai numeri che vi fanno capolino.

Ma ciò che maggiormente differenzia i quadri dai collages è la presenza in quest’ultimi di una vena ironica leggera e sottile come una velatura: una di quelle velature che Raspi domina come pochi altri. Le si veda (le velature e l’ironia) in Grammatica d’uccello del 1961, dove tutto tende al bianco ed il nero è un lacerto un po’ sbruffone che occupa una piccolissima porzione di spazio.

Ma che il nero non sia il destino di Piero Raspi ne danno prova i lavori degli anni ’80 e ’90, carichi di colore squillante e folto e anch’essi in convivenza con un sostanzioso nucleo di carte che ora, a differenza di vent’anni prima, elaborano e variano, seppur con un minimo scarto, le forme e i colori dei quadri coevi. Lo sguardo torna ai primissimi lavori Informèl: a carte saettate da segni ampi e veloci come Rovi di fiume, dove, come sempre in Raspi, e controllata e dominata anche l’ultima sbavatura di colore ed il segno più sottile. Straordinario trompe l’oeil questa gouache del primo Raspi, dove è resa perfino credibile l’idea che la pittura abbia ancora qualcosa a che fare con la natura.”

2019

Giorgio Flamini

“Nel rivedere i collages di Raspi, in preparazione della mostra di palazzo Collicola, rivivo la stessa sorpresa che provai nel 2010 quanto ne studiai con attenzione le schede per un allestimento alle Saline di Venezia che poi non ci riuscì di fare. Sorpresa per la straordinaria qualità estetica, la modernità e insieme la coerenza con tutta l’opera dell’artista.

È sorprendente come il linguaggio di Raspi e i temi rimangano costanti ed insieme si rinnovino nel tempo.

Nelle diverse serie di collages Raspi sempre si dimostra uno sperimentatore, un innovatore, un artista che anticipa i tempi e le poetiche. Come Rauschenberg, assorbe la realtà multiforme per poi trasformarla, attraverso un potente e originale atto creativo che scaturisce da una sapiente ricerca intellettuale.

La sua composizione nasce da un progetto chiaro, è quasi architettonica, il suo assemblaggio sviluppa degli ibridi in un’opera polimetrica complessa che apre varie prospettive di lettura.

E allora gli oggetti si propongono come feticci storici o relitti della contemporaneità, oppure come maquettes da scenografia o piuttosto come sipari che attendano una rivelazione, una mise en scène in cui protagonisti sono gli oggetti stessi, collocati al centro come tabernacoli d’altare e insieme celati, dipinti di nero catrame o scialbati da bianchi diluiti con scolature e timbri.

Raspi dipana la sua materia immaginativa con varie tecniche, dal collage alla pittura, dalle combustioni alla stampa, alla fotocopia, al packaging, ma il racconto che ne deriva ha un suo inconfondibile, costante segno: il rimando a qualcosa cui si allude ma che non si rappresenta, a un non detto a un non dipinto che l’opera materiale dell’artista si limita a evocare e suggerire. Il suo gesto nasconde l’attesa di un’epifania che forse non arriverà mai. E tuttavia questo secondo livello immateriale è costruito proprio attraverso un’assoluta padronanza della materia utilizzata.

Il ready made non è mai casuale: come nei combines di Rauschenberg, esiste una continuità tra spazio e forma, tra struttura e superficie, tra pieni e vuoti, perfino la “monumentalità” dell’opera di Rauschenberg si ritrova nei collages di Raspi, ma con un segno del tutto diverso: quanto quella è affidata ai grandi formati, agli oggetti macroscopici e campeggianti, tanto questa è interna ai piccoli formati e si esprime nelle geometrie, nelle proporzioni, nei rapporti che creano un tessuto quasi urbanistico, una topografia astratta, allusiva di una “monumentalità” tutta interiore.

Si tratta di progetti, di strutture, di forme geometriche o forme libere, spesso rielaborate anche pittoricamente. Nulla di quanto accade negli anni ’60 sfugge alla ricerca di Raspi: Burri, Fontana, Christo, de Kooning, Tàpies, attraversano il suo orizzonte culturale, ma la sua è una ricerca che non si ferma e che si sviluppa incessantemente su se stessa in una linea di continuità che parte da lontano.

Mi è capitato di recente di rivedere in una collezione privata un suo quadro figurativo giovanile di modeste dimensioni che mi ha fornito la chiave di lettura di tutta la sua opera: due donne sedute di spalle su una panchina, che guardano un orizzonte che non c’è in un’atmosfera cromatica di terre, verde scialbati e neri, dove non esiste un limite fisico, a parte la panchina vuota posta di fronte; le due donne non comunicano, non si guardano il loro sguardo è l’infinito. Al lato destro una forma geometrica schiacciata a terra (un volume sottratto? L’ombra della terza panchina che non c’è?). La pellicola pittorica è densa e sovrapposta; ad una visione mirata e lenticolare mi sembra di riconoscere la scelta formale e materica degli anni successivi.

La pittura di Raspi si nega, non si svela e non si conceda, lavora sull’assenza.

Anche nei collages, come nella pittura, vive un’alternanza di vuoti e pieni: alcuni sembrano una risposta all’horror vacui, e si affollano di oggetti della vita quotidiana, come i poveri oggetti della borsa di Winnie nello spazio post atomico di “Giorni Felici”, altri, al contrario, sembrano dare risposta all’horror pleni e si offrono come involucri o come deserti beckettiani: scenari ultimi.

I collages, allora nel loro complesso, si lasciano leggere come un diario nel quale, però, viene eliminato o occultato ogni riferimento autobiografico, per rappresentare uno spazio esistenziale comune in cui il dettaglio quotidiano, proposto anche con il gusto del nonsense e dell’ironia, si confronta con vuoti cosmici che si sottraggono all’interpretazione.”

2021

Umberto Croppi

“Quello di Piero Raspi con la Quadriennale di Roma è un legame forte: la sua prima volta è nell’edizione del ’55, è il salto nella scena nazionale che lo porterà, di lì a tre anni, a essere scelto per la Biennale di Venezia, dove se ne consacrerà l’attenzione anche oltre confine.

È la settima edizione della mostra romana: si mette in scena lo scontro tra figurativi e non figurativi, tra questi ultimi, appunto Raspi, insieme ad Alberto Burri, con i suoi sacchi e le tele lacerate, Lucio Fontana con i concetti spaziali, gli artisti del Gruppo degli Otto, formato nel 1952 da autori legati all’astrattismo (Vedova, Turcato, Afro, Corpora, Morlotti, Birolli, Santomaso).

Alla manifestazione di Roma tornerà nel 1965, non prima di avere esposto a Parigi, Madrid, Londra Los Angeles, Chicago, Barcellona, New York, Tel Aviv, Tokyo, Rio de Janeiro e in molte altre capitali straniere.

Nel ’65 la Quadriennale è al suo nono appuntamento e, sotto la presidenza di Bonaventura Tecchi, registra una novità: fino ad allora strettamente riservata agli artisti, la giuria di accettazione viene allargata ai critici. Tra gli espositori si trovano i nomi di due spoletini, Piero Raspi e Leoncillo Leonardi, più grande di lui di undici anni, col quale ha sviluppato una frequentazione artistica di reciproco scambio. Sono nel pieno dell’esperienza informale, post dadaista, a cui cominciano ad affiancarsi i primi esponenti della Pop Art (Franco Angeli, Tano Festa, Gino Marotta, Mimmo Rotella) che in poco tempo farà segnare un giro di boa per l’arte italiana, sotto l’onda contaminatrice che arriva da oltre oceano.

La sua storia artistica lo pone nel novero dei grandi artisti italiani del Novecento: una personalità forte, capace di sentire lo spirito del tempo e anticiparne i movimenti, un impegno fatto di fatica e lavoro costante, che non persegue il consenso ma la ricerca personale, in cui si avverte innanzitutto l’ansia di “capire”, per poter restituire sulla tela, con cura tecnica, un personale bagaglio di intuizioni.

Il consenso tuttavia arriva, unanime, da parte della critica, che ne riconosce il valore e non manca di sottolinearne la specificità.

Raspi lavora per anni in solitudine, ma è tutt’altro che un solitario: è lui ad animare il gruppo degli artisti di Spoleto, Giuseppe De Gregorio, Filippo Marignoli, Giannetto Orsini, Ugo Rambaldi e Bruno Toscano e a dar vita al premio intitolato alla sua città. Esempio di una “provincia” italiana tutt’altro che provinciale, capace anzi di farsi protagonista nel mondo.

Appartiene infatti a quella genìa di artisti la cui sperimentazione ha segnato la progressione dell’estetica in un costante dialogo con i movimenti internazionali; scuole e gruppi che hanno messo a fondamento della propria produzione il pensiero e che hanno impresso nell’arte un’influenza spesso disconosciuta o dimenticata.

È dunque un atto non solo dovuto all’uomo, al protagonista, ma all’arte italiana, alla sua conoscenza, alla sua comprensione dedicare a Piero Raspi una mostra antologica, che ci auguriamo possa essere riprodotta e aggiornata e accompagnarsi ad altre che rendano giustizia di intere stagioni di un passato recente, nient’affatto concluso in se stesso.”

Marco Tonelli

“Di Raspi ci occupammo tutti, noi critici, in quegli anni (Argan, Arcangeli, Calvesi, Boatto, Marchiori, Marisa Volpi, Vivaldi, Sandra Orienti, Crispolti, Battisti)”: così scriveva Giovanni Carandente nel 1998.[1]

Se oggi la scena critica contemporanea è decisamente cambiata e, potremmo aggiungere, nessuno dei nomi ricordati da Carandente, lui compreso, è più tra noi, Piero Raspi e la vicenda stessa della sua opera sembrano dei sopravvissuti a un tempo che fu e che non potrà ripetersi.

Raspi è stato senza dubbio uno dei protagonisti di una felicissima stagione della pittura contemporanea (Informel, Art Autre o Informale che dir si voglia), che si è sviluppata e diffusa a livello internazionale a partire dalla metà degli anni ’50, e in Italia “quasi ovunque”[2] solo nel 1958 quindi con un po’ di ritardo rispetto all’Europa in genere e agli Stati Uniti, per poi chiudersi storicamente nel 1964 con l’avvento della Pop Art: “tra il 1962 e il 1964 ci fu lo shock della fine dell’Informale”, ha ricordato uno dei testimoni di quel periodo.[3] In questo lasso di tempo Raspi avrebbe preso parte a due Biennali di Venezia (1958 e 1964), partecipato a undici edizioni del Premio Spoleto (all’epoca una manifestazione di importanza nazionale) e tenuto mostre personali alla Galleria L’Attico di Roma presentato da Maurizio Calvesi nel 1959 e nel 1962. Se la mettessimo soltanto in questa ottica allora sì parleremmo di un tempo passato e di una vicenda del tutto estinta, ma la storia non si è fermata al 1964 né Raspi, oggi all’età di 95 anni, ha smesso di dipingere. In conseguenza di tutto ciò, non possiamo ritenere lui e la sua pittura dei sopravvissuti.

Certo la sua produzione e vicenda pittorica non è stata né lineare né continua, se si pensa che se Flavio Caroli parlava di un rifiuto e un annichilimento, di una crisi e di un abbandono della pittura dopo il 1969 per un ricominciamento nel 1978, anche Carandente nel testo in catalogo nella stessa occasione espositiva parlava di un lungo sonno e di un ritorno alla pittura dopo anni di silenzio, mentre Cesare Vivaldi aveva annotato nel 1983 “per anni Raspi si è estraniato dalla scena artistica, e solo oggi ha accettato di mostrare il suo lavoro recente”. Il dipinto Aphia del 1978 veniva ad esempio salutato da Caroli in questo modo: “la vita ricomincia, per Raspi, nel ‘78”, salvo poi scoprire che proprio nel silenzio Raspi ha continuato a lavorare e produrre, anche in anni in cui la centralità della sua opera non era più la stessa del periodo precedente, ovvero il decennio 1955-1965.

Una prima parentesi, un primo attimo di pausa e ripensamento Raspi lo vivrà infatti subito dopo il ritorno dal suo soggiorno americano tra 1967 e 1968, quando distruggerà molte delle tele realizzate negli USA. Del resto il 1968 sarà un anno fatidico per molti altri artisti italiani, venendo a mancare nell’arco di soli quattro mesi Lucio Fontana e Pino Pascali (settembre), Ettore Colla e Gastone Novelli (dicembre) e soprattutto Leoncillo (ancora a settembre), a cui Raspi era ovviamente legato per molte ragioni. Prima di tutto perché entrambi spoletini, poi perché Leoncillo, di undici anni più vecchio, aveva avuto modo di entrare nell’ambiente romano di gallerie e critici d’arte fin dalla fine degli anni Trenta e rappresentava per lo stesso Raspi e per il gruppo degli spoletini di cui condivise le sorti (Marignoli, De Gregorio, Toscano, Orsini, RambaldI), un artista trainante a livello emotivo e formale, un ponte ideale con il mondo dell’arte nazionale e internazionale dell’epoca. Non è un caso che proprio Leoncillo fu investito del compito di introdurre nell’aprile del 1956, con un testo nel pieghevole di presentazione, la mostra dei suoi amici presso la Galleria La Tartaruga di Roma dal titolo De Gregorio, Marignoli, Raspi, Toscano. Tra parentesi si ricordi che il 1956 è l’anno di svolta della scultura stessa di Leoncillo, che ripudiata la sua adesione al Comunismo dopo i fatti di Ungheria e per ripensamenti personali, inizia la sua folgorante avventura nella materia informale abbandonando tensioni neocubiste, neoespressioniste e figurative degli anni ’40 e ‘50. Nell’ottobre del 1958 inoltre Leoncillo avrebbe tenuto la sua prima mostra personale all’Attico di Bruno Sargentini preceduto proprio, sempre quell’anno, dalle personali di De Gregorio (4 gennaio), Marignoli (23 gennaio), Raspi (1 marzo)[4], dopo che nella mostra di apertura dell’Attico nel novembre del 1957 aveva già esposto con loro:[5] “Nume tutelare che li ha portati in dote a mio padre Bruno”[6], avrebbe affermato Fabio Sargentini a proposito del ruolo che ebbe Leoncillo nell’introdurre i pittori spoletini all’Attico. In tal senso la ricostruzione in mostra di un clima informale di quegli anni è utile per ricondurre la pittura di Raspi ad un tempo preciso, in particolare vicino agli artisti materici e gestuali dell’Attico, italiani e non, più in vista alla fine degli anni ’50: Bendini, Bogart, Canogar, De Gregorio, Goetz, Hoehme, Leoncillo, Marignoli.

Difficile dunque separare Leoncillo dal gruppo degli spoletini, dei cui quadri lo stesso scultore aveva scritto nel 1956 che “nascono da un sentimento diretto e non mediato delle forme della natura, che non è quindi mai né ripudiata né descritta”, riflessione che, sintetizzata nella formula né realismo né astrazione, ovviamente poteva benissimo essere applicata anche alle sue stesse sculture in gres e ceramica smaltata.

Altrettanto difficile separare le sorti di Raspi in quegli anni dalle vicende del gruppo spoletino, formatosi per così dire all’inizio degli anni ’50, ma che aveva iniziato a esporre pubblicamente a compagine più o meno completa dal 1954 in varie gallerie italiane (Il Camino di Roma, con presentazione di un altro illustre maestro come Mario Mafai, il quale chiosava: “non tutti di loro riusciranno a superare gli ostacoli ma i più dotati, i più intelligenti, i più tenaci ce la faranno” e La Saletta di Spoleto nel 1954; La Loggia di Bologna e la Galleria Tacito di Terni nel 1955; la Galleria Spotorno di Milano nel 1956).

Molti anni dopo, per la precisione nel 1979, quando ormai era chiusa sia l’esperienza del gruppo dei pittori spoletini che dell’Informale, si terrà in Germania, presso la Moderne Galerie des Saarland-Museums di Saarbrücken, una mostra dal titolo Informelle Landschaften. “Nuovo naturalismo umbro”. Leoncillo-Raspi-Marignoli-De Gregorio: la storia stava consegnando i suoi responsi a quanto aveva presentito Mafai nella mostra di apertura del gruppo un quarto di secolo prima.

Detto ciò, la vicenda di Raspi non coincide fino in fondo né con quella di Leoncillo né con quella dei suoi conterranei e compagni di strada e, sembra paradossale affermarlo, neanche con la vicenda stessa della sua pittura, che ancora per certi versi rimane un oggetto non facilmente identificabile.

Basterebbe pensare che sempre Carandente, in uno dei cataloghi di mostre personali del pittore, cercò di delinearne le specificità suddividendo mezzo secolo di attività in tre soli aspetti: 1) le opere prodotte tra 1959 e 1964 “a pasta piena”, “risalto materico” e “magma monocromatico”; 2) i coevi Collages del 1959-1963; 3) le opere recenti a partire dal 1980. Oggi potremmo sintetizzare, modificando leggermente lo schema, nel modo seguente: 1) alla ricerca della luce 1955-1964; 2) trapasso materico verso la superficie 1965-1978: 3) la scoperta del colore.

Forse poco per sessanta anni di pittura (dal 1955 al 2005, che è poi il periodo preso in esame in questa mostra), ma abbastanza per fissare delle linee di approdo nella vicenda pittorica di Raspi che ovviamente inizia prima del 1955 (basterebbe ricordare le sue prime apparizioni espositive con quello che sarebbe stato il Gruppo di Spoleto già nel 1951), avendo fissato il suo linguaggio d’avanguardia, dopo le prove figurative giovanili, in una fase dal chiaro impianto neocubista.

Il fatto è che Raspi sembra non aver mai pensato alla sua pittura come a un progetto, un discorso omogeneo, un’intenzione di poetica da esplicitare, ma una forma di vita con tutte le sue cadute e risalite, crisi ed estasi, conflitti e soluzioni apparenti. Pensiamo solo che per superare la temperie informale nel 1964 iniziò a dipingere riportando su tela quelle sperimentazioni silenziose realizzate su carta a collage qualche anno prima, quasi tagliando il piano e ricavando altri piani, immettendo segni, lettere, inventando una tavolozza piena di colori, oggettuale, come avesse superato una sorta di lutto cromatico (nero, grigio e bianco) del periodo di poco precedente. Arrivando poi tra 1966 e 1967 a produrre opere chiare, trasparenti come Paper mate o Giardino a Bear Run, caratterizzate da un clima che sembra risentire della vivace gaiezza di David Hockney o del Color field statunitense (proprio nel periodo in cui va a vivere negli Stati Uniti, in Pennsylvania, esponendo a Philadelphia e New York e avvertendo ovviamente l’imperante clima del post espressionismo astratto, tra Pop Art e pittura hard edge). Giardino a Bear Run coniuga la passione per l’architettura di Raspi con una pittura più costruita: Bear Run, presso Mill Run in Pennsylvania, è il ruscello che scorre sotto la celebre casa Kaufman di F. L. Wright, che Raspi visitò durante il soggiorno statunitense. Nelle sue opere entrano così geometrie più delineate, sollecitazioni visive e cromatiche più calde e dinamiche, che Mario Schifano, con più eccesso e sfrontatezza, aveva già sperimentato in quegli anni nei Paesaggi anemici del 1964.

Ricordando l’espressione usata dal critico d’arte Francesco Arcangeli in merito ai dipinti di Raspi, ovvero “c’è una luce bellissima”, ancora Caroli (che di Arcangeli era stato allievo) specificò in modo molto suggestivo che quella luce, che proveniva dal suo periodo Informale, sembrava dirigersi “nel bagliore di una spiaggia di un pittore olandese del Seicento” e che allo stesso tempo era luce “di inferno che azzanna la tela come un putrido, ma ordinato liquame dell’aldilà”.[7]

Tutta l’opera di Raspi in effetti, volessimo condensarla in una sola espressione, sembra costantemente in bilico tra un gioco di rimandi e lotta tra luce ed ombra, prediligendo tratti ora dell’una ora dell’altra o magari cercando di fonderli insieme, tenendone sempre ben viva ad ogni modo la dialettica. Cosa che confermerebbe lo stesso Calvesi, il quale presentando la mostra Bendini, Bogart, Canogar, De Gregorio, Leoncillo, Marignoli, Mihailovicth, Raspi all’Attico nel febbraio del 1959 scrisse: “Raspi partisce sullo scriminale della luce e dell’ombra, come a colpi di pettine, le sue spatolate”. Luci ed ombre quindi anche rispetto alle apparenti interruzioni e rinascite segnalate ogni volta dai critici che della sua opera si sono occupati più da vicino.

C’è dunque un Raspi dentro il suo tempo (con associazioni, nei suoi collage materici ed oggettuali, che arrivano fino a Robert Rauschenberg) e un Raspi oltre questo stesso tempo nella produzione di monocromi cha caratterizza la sua pittura dalla fine degli anni ’70 ai giorni nostri. Another Time (per citare il titolo della raccolta di poesie di W. H. Auden): un altro tempo, letteralmente, preparato indubbiamente attraverso alcune sperimentazioni tra metà e fine anni ’60, ma ugualmente repentino, quasi inspiegabile. Certo dal 1978 in poi non si tratterà di un vero e proprio azzeramento, piuttosto di un “annientamento del superficiale” come già aveva annotato nel 1963 il critico francese Pierre Restany a proposito della sua pittura (squame di pittura, un’insistita sensualità materica, colore pettinato e composto sono a dimostrarlo), per cui la superficie vibrerà in modo più omogeneo, senza quelle fratture, quelle emersioni, sovrapposizioni, spaccature del periodo Informale, che fanno somigliare le sue pitture a muri spoletini, suggestione a cui del resto già Leoncillo alludeva per le proprie sculture: “Sono nato in mezzo a vecchie pietre patinate da tanti secoli fa, e poi gli stili diversi dei palazzi radunati in un piccolo spazio; in pochi metri di strada tanti secoli. Il tempo passato e quello presente da toccare con la mano come si tocca un muro screpolato e accanto lo stucco recente…”.[8]

Certo la dimensione dello scorrere del tempo non sembra estranea al periodo post-informale di Raspi, come se situazioni monocromatiche nel loro omogeneo dispiegarsi sulla tela trasformassero un tempo discreto in uno continuo. Potremmo sintetizzare il processo con una espressione: dalla luce al colore e a mo’ di postilla aggiungere le parole di Enrico Mascelloni: “… che il nero non sia il destino di Piero Raspi ne daranno prova i lavori degli anni ’80 e ’90, carichi di colore squillante e folto…”.[9] Questa è l’unica direzione avvertibile nelle sue opere, un passaggio netto, uno stacco apparentemente improvviso tra una dialettica luce/buio su una materia tragica e fratturata da una parte e una diffusione sensuale del colore su tutta la superficie. Forse non c’è altro da dire, altro da spiegare…

Potremmo azzardare però un’ipotesi per questo passaggio, riprendendo il discorso da quel fatidico anno, cioè il 1968: dopo il colpo subito con la Pop Art nel 1964, che pure poteva aver aperto sonorità e cromatismi nuovi nella pittura di Raspi, dopo l’affermazione dell’Arte povera nel 1967 (prima con la mostra Fuoco Immagine Acqua Terra ideata da Fabio Sargentini presso la Galleria dell’Attico e poi subito dopo con Arte povera Im-spazio di Germano Celant alla Galleria La Bertesca di Genova), la scena dell’arte era drasticamente cambiata, per molti irrimediabilmente. Un artista come Alberto Burri ad esempio, per molti versi anticipatore dell’Arte povera, caratterialmente inflessibile e linguisticamente irriconducibile alla Pop Art, pur con interventi oggettuali in anticipo rispetto allo stesso Rauschenberg (e da questi osservati), non aveva avuto nessun problema a tenere dritta la rotta: per altri non andò così, Leoncillo ad esempio avvertì in modo profondo questo cambiamento, potremmo dire in senso tragico: “Burri ce l’ha fatta certo […] ma ha avuto dalla sua, la possibilità̀ della grande amarezza in cui si è trovato venuto in Italia dal campo di prigionia […] poi lui non è stato consumato da altre esperienze precedenti, in piena maturità̀, si è trovato “fresco” nel mondo del dopoguerra […]”.[10]

Dunque Raspi, come altri insieme a lui, potrebbe non aver assorbito ciò che invece per artisti più veloci e capaci di cogliere le novità del loro tempo sarebbero state opportunità: quelle novità segnavano l’impraticabilità della via tradizionale dell’arte, che pure lui stesso aveva vissuto secondo impulsi di una poetica, quella Informale, a sua volta fortemente provocatoria e innovativa. Il punto è però un altro: Raspi ha sempre lavorato nel solco della storia della pittura e del rapporto del soggetto con la natura e la storia stessa, diversamente da quello che maturò tra 1964 e 1968 ovvero le cosiddette “nuove dimensioni della scultura” e della pittura, per citare un testo fondamentale e fortunato di Udo Kultermann, pubblicato proprio all’inizio del 1967.

Non sarà allora una coincidenza che proprio tra 1968 e 1978 non si hanno in mostra opere di Raspi (tra Ripetizione nero del 1968 e Aphia del 1978 c’è un vuoto), perché di fatto non è stato possibile reperirne e non ne sono state praticamente prodotte. Da quella strettoia (lui che era riuscito a non farsi schiacciare né tenere prigioniero da Burri e Tàpies, come evidenziava Arcangeli nel 1963 presentando una sua mostra con Bendini a Londra), ne uscirà una pittura appunto “altra” senza essere autre, altra rispetto alla sua stessa storia, al punto quasi da azzerare non tanto la pittura ma il concetto di storia dentro l’opera. Non più sviluppo o progressione, fratture e cuciture, strappi e lacerazioni tipiche di certe avanguardie, geometrie e ricostruzioni, come avvenne del resto per Raspi negli anni ‘50 e per tutti i ’60: dal 1978 ad oggi la sua pittura ha annullato scritture e differenze per assumere l’essenza di un continuum. Non si tratterà di ripetizione quindi ma di una discorsività non inflazionaria né violenta, secondo una linea che in cosmologia seguirebbe la costante di espansione dell’Universo, grazie alla quale il Cosmo aumenta il suo volume per un gioco di equilibrio e calibrature tra materia (che attrae) e velocità di fuga.

Negli ultimi trenta anni perciò la pittura di Raspi presentifica paradossalmente una “costante” in forma di netta cesura tra un prima (il 1968) e un dopo, dove ovviamente non sarà troppo discriminante o significativo il fatto di aver dipinto in clandestinità o meno, se pensiamo che lo stesso Duchamp avrebbe lavorato in segreto per venti anni, fino alla sua morte, all’ opera Etant donné: per un artista il tempo, il mercato, la visibilità pubblica, la fortuna critica non sono elementi costitutivi rispetto al lavoro, ma solo strumentali e promozionali. Per certi versi una delle opere in assolute più impegnative, di cui si hanno in mostra bozzetti preparatori e maquette di cartoncino su legno, il grande rilievo parietale Omaggio a Burri del 2001, testimonia da una parte un ritorno in tarda età alla costruzione del quadro per piani di materia (lastre di acciaio a rilievo) e geometrie, dall’altra una progettualità da sempre implicita nelle sue opere, ma che in questa scultura-bassorilievo o pittura-tridimensionale che dir si voglia emerge con una forza quasi architettonica (a memoria forse anche della sua formazione di studi universitari da architetto).

Opera commissionata [11], Omaggio a Burri già nel titolo dice tanto della storia e dei debiti di Raspi: forse la sua opera più ambiziosa, di certo una summa tra ricerche informali oramai spogliate dell’ansia di un tempo andato, la passione per il collage oggettuale e l’amore per il piano pittorico costruito ed esaltato in una materialità altra, non più soggettiva o naturalistica ma “industriale”.

Se Marcello Venturoli, in anni caldi, aveva definito Raspi “uno dei più sensibili della istanza informale o viscerale del Gruppo di Spoleto”, accostando la sua opera a Wols, Burri e al “collega di Toledo, Canogar”[12], possiamo oggi affermare che quella sensibilità non è mai venuta meno, ma, rivestendo la propria visceralità di una pasta cromatica più morbida, più lirica (come se Raspi avesse cambiato pelle e la sua pittura “nera” avesse acquistato colore) abbia superato e sublimato le temperie e le ansie di un’epoca.

“Un altro tempo ha altre vite da vivere…” scriveva W. H. Auden.”

[1] Piero Raspi. Mostra antologica, Palazzo Ràcani-Arroni, Spoleto, Artemide Editore, Roma, 1998, p. 9

[2] Roberto Pasini, L’Informale. Stati Uniti, Europa, Italia, CLUEB, Bologna, 1996, p. 291

[3] “Duccio Marignoli intervista Bruno Toscano”, Filippo Marignoli. Vertigo, a cura di Enrico Mascelloni, Museo Bilotti, Roma, Silvana Editoriale, 2010, p. 40

[4] Per l’occasione Raspi espose 12 dipinti realizzati tra 1957 e 1958, tra cui Tramonto nella cava (1958) e Inverno nello stagno (1958)

[5] La mostra in esame aveva visto la presenza, oltre a Leoncillo, Raspi, De Gregorio, Marignoli, anche di Vasco Bendini, Ennio Morlotti, Enzo Petrillo. Di Raspi fu esposto Inverno n. 2 del 1956

[6] Fabio Sargentini, “Salti nel buio alla ricerca di una luce perduta”, Filippo Marignoli. Vertigo, op. cit. p. 60

[7] Flavio Caroli in Piero Raspi. Mostra antologica, Palazzo Ràcani-Arroni, Spoleto, Artemide Editore, Roma, 1998, p. 12

[8] Leoncillo, Il Piccolo diario 1957-1964, a cura di Marco Tonelli, Skira, 2018

[9] Enrico Mascelloni, “Materie strettamente sorvegliate. I collage di Piero Raspi”, Raspi. Opere su carta, Edizioni Quasar, Roma, 2002

[10] Leoncillo, op. cit.

[11] L’opera è stata realizzata per l’hotel Albornoz di Spoleto e lì ancora oggi visibile

[12] Marcello Venturoli, “I pittori Raspi e Sadun e lo scultore Somaini”, Paese Sera, Roma, 2 dicembre 1959